La Fondazione Merz riprende il filo delle esposizioni dedicate al Mario Merz Prize, che si erano interrotte a causa della pandemia, con una bellissima mostra personale di Bertille Bak, artista francese classe 1983, vincitrice della terza edizione del premio nel 2020.
La mostra è curata da Caroline Bourgeois e porta un titolo che suona come un gioco: “Mineur mineur”. Il senso delle parole, apparentemente ripetute come in una filastrocca, però non è un gioco, anzi. Significa, letteralmente, “Minatore minorenne”.
Il tema del lavoro dei minori non tutelati è qualcosa di molto lontano da noi? Non proprio. Non solo perché il concetto di “lontano” – nel tempo o nello spazio – nel mondo della comunicazione digitale è ormai è poco più di un’opinione; ma anche e soprattutto perché i minorenni le cui vite sono poste in pericolo sul lavoro, più o meno in alternanza con la scuola, sono ahinoi dappertutto.
L’argomento è quindi scottante e Bertille Bak, anche per ragioni personali (il nonno, appena tredicenne, lavorò nelle miniere nel nord della Francia), ne è profondamente coinvolta, tanto collaborare con alcune associazioni impegnate nella difesa dei diritti dell’infanzia.
L’infanzia di cui parla Bak è un’infanzia tradita, ma è pur sempre un’infanzia, e dell’infanzia ha il tono ed il linguaggio. Per questo tutte le opere in mostra si muovono intorno al tema de fiabesco, del gioco. Un gioco che presto, però, coglie noi spettatori di sorpresa, e si rovescia nel suo opposto. D’improvviso le atmosfere colorate s’incupiscono, i suoni gradevoli si fanno stridenti e siamo precipitati in atmosfere tese e inquietanti.
Per esempio, all’inizio del percorso espositivo c’è una giostra, con piccoli cavallini di legno colorato e tenere lucine. La giostra si anima, comincia a girare, ma presto avvertiamo che qualcosa non torna: la velocità aumenta troppo vorticosamente, il suono si alza, si fa caotico e ansiogeno. Dal lunapark all’inquietudine, dalla piacevolezza al rumore ingombrante, troppo forte, persino al suono delle sirene, il passo non sembrava breve, ma eccoci qui. Allora la giostra si ferma, per pochi minuti. E, dopo un breve silenzio, tutto ricomincia a girare, come se nulla fosse accaduto.
Più avanti, colonne di cartone corredate da piccole scale scomode, consentono allo spettatore di salire, ma lo costringono a rivolgere il proprio sguardo disagevolmente verso il basso. Un video racconta di piccoli pulcini ammassati l’uno contro l’altro, appena usciti dai loro gusci d’uovo, e di trappole da pollaio.
C’è poi un’altra opera video. Qui, più schermi rettangolari sono posti l’uno accanto come in un piccolo anfiteatro, dove ogni schermo mostra un video diverso. Vediamo bambini avventurarsi nel ventre della terra per spuntare da pavimenti colorati, vestirsi di abiti colorati e carnevaleschi e poi girare su se stessi come personaggi di un carillon. Il lungo lavorìo sotterraneo che impegna i bambini, fa sorgere dagli spazi labirintici piccoli teatri di cartone, dove i bambini allestiscono spettacoli come quelli che si fanno a scuola nei giorni di festa. Poi, però, la musica si ferma, i teatri di cartone si chiudono su se stessi come scatole inutili, e scende la notte.
Abbiamo parlato del linguaggio tipico del fiabesco. Oggi, quando pensiamo a una favola, ci vengono in mente i film della Pixar, dalle trame fin troppo equilibrate, edulcorate ed infiacchite dal politically correct. Ma il linguaggio delle fiabe della tradizione è in realtà ben più fosco e cruento: allo stesso modo, la favola dei piccoli minatori è piena di un tragedia neanche troppo velata, anzi, di un vero e proprio dramma nel senso greco. I colori vivaci e il tono allegro con cui vediamo i bimbi pettinarsi o girare ritmicamente su se stessi come piccole gradevoli bamboline, e infine allestire il vivace spettacolo pieno di luci, non tardano, infatti, a rivelare un retrogusto ben più amaro.
Eppure, nelle opere di Bertille Bak chissà se la tragedia ha davvero l’ultima parola. Le favole, quelle vere, sono sì feroci, e terribili, ma alla fine c’è sempre uno spiraglio, un lieto fine. Perciò è lecito immaginare, forse – speriamo – una nemesi possibile.
C’è da chiedersi, per esempio, se i piccoli minatori colorati che animano i lavori di Bertille Bak, reali o metaforici che siano, mentre si muovono svelti nei labirinti sotterranei, la luce bene accesa sui caschi allacciati sotto il mento, siano forse capaci di scuotere anche le coscienze intorpidite di chi preferisce non guardare.
Allora viene in mente un romanzo francese, scritto da Émile Zola nel 1885, che parla di una rivolta di minatori. Colpisce, in Zola, l’immagine di questa energia potente, sebbene ancora indistinta, che si muove sottoterra, non vista, e che pure esiste e si prepara a uscire sorprendentemente allo scoperto. Il romanzo si intitola Germinal, e narra di qualcosa che germoglia, che cresce sottoterra come un seme, che non si vede, ma prima o poi spunta e getta fiori.
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