La Fondazione Baruchello ha inaugurato lunedì 14 giugno, a Via del Vascello 35 a Roma, la quinta edizione del progetto Summer Show promosso da Roma Culture con la mostra “Not Quite Nearly Fine”, curata da Giulio Squillacciotti e aperta al pubblico fino al 28 luglio.
Per questa edizione, organizzata nell’ambito dell’“Estate Romana 2021”, l’artista riveste il ruolo di curatore con l’intento di presentare, in maniera del tutto inedita, progetti che coinvolgano contemporaneamente artisti nazionali e internazionali, curatori, grafici e editori.
Seppur diviso in due tappe e nuclei concettuali, il programma espositivo presenta una fitta rete di punti tematici di contatto, quali politiche transnazionali, relazioni culturali tra comunicazione e traduzione, dislocamenti reali e mentali che conducono agli itinerari imprevisti di una possibile interazione con l’altro.
Il titolo Not Quite Nearly Fine, letteralmente “non abbastanza vicino al buono”, è una definizione assunta dalla terminologia del mercato antiquario rivolta sia alla qualità che allo stato di conservazione di un libro antico. Attraverso i lavori di Anne Huijnen, Artun Alaska Arasli, Ben Weir, Daniel de Paula, Giulio Squillacciotti, Marie Claire Krell, Marwan Moujaes e Nour Mobarak, questa prima esposizione prende la forma di “autoritratti” interdisciplinari che raffigurano diverse condizioni dal valore identitario.
Intorno a tale concetto ruota, in particolare, l’installazione Domination-flux (2019) di Daniel de Paula che, con tre scatole da stoccaggio contenenti rame granulato estratto dai cavi per la comunicazione dei dati ad alta velocità, traduce la mercificazione digitale dell’uomo e la soggettività dell’artista in un oggetto concreto che ha il suo stesso peso corporeo.
La mostra si snoda attraverso un percorso che accompagna il visitatore in un’evasione lontana fatta di installazioni, immagini mobili, voci in lingue, accenti e timbri differenti. Residui di tracce e di memoria si fanno trasposizione di una serie di eventi, situazioni storiche, urbanistiche o personali, divenendo allegorie di macro temi, il cui filtro è dato da una sapiente “scenografizzazione del linguaggio”, citando le parole di Squillacciotti.
Parlando di linguaggio troviamo in mostra la fotografia Untitled (image), scattata nel 2020 da Artun Alaska Arasli, che immortala un comunicato stampa imbrattato di sangue finto, sofisticandone il contesto e ponendo una riflessione sulle divergenze tra documento e opera d’arte. Poi vi è l’opera Father Fugue (2019) di Nour Mobarak che racconta, tramite una registrazione di 20’45’’, una conversazione in quattro lingue differenti tra l’artista e il padre poliglotta, Jean Mobarak, affetto da una capacità mnemonica di soli trenta secondi, ponendosi come indagine degli sfasamenti sia delle persone che degli stati nazionali. Sempre sul tema della comunicazione è esposto il lavoro Together, A Stack (2019/2021) di Ben Weir che racconta, con una voce dall’accento irlandese, della potenzialità e del non finito. Esso interroga artefatti urbani esistenti attraverso processi additivi sui sistemi di valore e le forze socioeconomiche, per scoprire qualcosa di nuovo sulla loro speculazione e relazione con noi.
Squillacciotti basa il suo lavoro multiforme sull’indagine di possibili ordigni narrativi, sublimandone la fattezza attraverso film e documentari, come nel caso del cortometraggio in mostra What has left since we left (2020), recentemente presentato ai “Rencontre Internationales del Louvre” e prossimamente anche all’Artist Film International della Whitechapel di Londra. Ambientato nella sala del trattato di Maastricht e contestualizzato in un desolato futuro anteriore, tre politici rappresentanti il Belgio, l’Olanda e la Germania, interpretati tutti dalla stessa donna, si riuniscono per chiudere definitivamente l’Unione Europea. Gli ultimi tre paesi rimanenti cercano di superare la loro perdita prendendo parte a una seduta psicoanalitica gestita dall’interprete britannica che, in veste di analista, ne interpreta i discorsi, approdando a un dialogo surreale che permette di intrecciare gli argomenti politici, come la migrazione e la Brexit, a quelli privati, come le separazioni vissute e la messa in discussione del proprio Io. Il titolo stesso, “Quello che è rimasto da quando ce ne siamo andati”, esorta ad accettare, senza chiedersi il perché, quello che non vi è più e ad adattarsi a ciò che potrebbe accadere, come ne è esempio anche la scultura in esposizione di Marie Claire Krell.
“Definirei Not Quite Nearly Fine una messa in scena di spazi del cervello, pieni sui vuoti, che ha come filo conduttore il non detto e il non scritto. È un “cannibalizzare” i lavori a favore di un filone narrativo che è il mio”, afferma Squillacciotti. Da un punto di vista concettuale, se il vuoto in The Baptism of the Artist (2019) dell’artista libanese Marwan Moujaes è dato dalla privazione di un rito battesimale completo e della purezza sottrattagli dalla guerra, nell’installazione Posture (2015) dell’artista olandese Anne Huijnen, il senso di vuoto è dato da una conversazione mancante di cui è ignaro il contenuto e ciò che rimane è il linguaggio del corpo in assenza dei suoi protagonisti e due sedie vuote. Il lavoro mescola inquietudine e consuetudine, indagando la costruzione delle strutture sociali, sottolineando l’assurdità della quotidianità e la complessità delle regole non scritte tra il mondo reale e quello teatrale.
“Ho utilizzato per l’allestimento di questa esposizione un approccio teatrale; sono stato attento alla spazialità delle cose come nei film. Prima ho pensato agli artisti di cui mi interessava il lavoro e poi vi ho applicato questo filtro in termine di display”, puntualizza Squillacciotti, conferendo alla mostra una coerenza non solo tematica, ma anche di scelta espositiva.
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