La galleria z2o Sara Zanin lo scorso 5 febbraio ha presentato la terza mostra personale dedicata all’artista Beatrice Pediconi, curata da Cecilia Canziani.
Beatrice Pediconi, nata a Roma nel 1972, da 12 anni vive e lavora a New York. Un’artista multidisciplinare che da anni sperimenta con varie tecniche che spaziano tra la pittura, la fotografia e la video arte. In questo caso presenta una serie di lavori, eseguiti nel corso di quest’ultimo anno e mezzo, realizzati con l’emulsion lift; una tecnica che consiste nell’utilizzo dell’emulsione di fotografie scattate in precedenza e poi posizionate sulla carta attraverso l’uso di pennelli o con le mani. Tutto il processo si svolge all’interno dell’acqua, e per i lavori di dimensioni più grandi Pediconi ha creato anche vasche apposite. Il risultato sono dei filamenti che sembrano dei disegni a china o in alcuni casi degli acquerelli che evocano forme quasi floreali.
Questa serie di lavori inediti è una riflessione dell’artista sul tempo, su cosa rimane della nostra esistenza e del nostro passato. Per far questo la fotografia perde la sua identità di portatrice di immagine e viene ridotta a una traccia, un flebile segno di ciò che è stata.
Abbiamo chiesto all’artista di raccontarci di più delle opere e del processo creativo di questi nuovi lavori presentati in anteprima nella sua città natale:
Questo corpus di lavori che vengono presentati in anteprima a Roma, sono stati realizzati nella Capitale o negli Stati Uniti?
«Tutti i lavori sono stati realizzati nel mio studio a New York tranne che Diario di un tempo sospeso che è stato realizzato a Roma durante la quarantena. Ero venuta a febbraio, per trascorrere un breve periodo, invece poi mi sono trovata bloccata a causa della chiusura degli spostamenti. Sono rimasta sei settimane, nelle quali per ogni giorno dei 43 ho realizzato un disegno differente che scandisce il mio passaggio. Diario di un tempo sospeso si lega anche all’idea che il mio lavoro ha un processo. Quest’opera è stata per me un vero e proprio diario; doveva rappresentare lo scandire delle giornate all’interno di un momento. “Un tempo sospeso” proprio perché lo ero: non ero a casa mia, lontana dal mio studio, con solo tre pantaloni e un trolley. Quindi mi ha aiutato a vivere la quotidianità di quel periodo. Cecilia Canziani ha voluto mettere questa opera proprio all’inizio della mostra essendo l’unica realizzata a Roma e anche la più legata al luogo.»
A proposito della tecnica da lei utilizzata, le foto che ha usato per creare queste opere sono delle sue produzioni precedenti? Ha seguito un criterio di selezione di queste foto o la scelta è stata dettata dalla casualità?
«La tecnica consiste nel recuperare l’emulsione fotografica che apparteneva a dei miei lavori precedenti. Sono dei ritagli di polaroid da cui ho staccato l’emulsione dal supporto originario e l’ho trasferita sulla carta da acquerello. Dovevano risultare dei filamenti, delle tracce flebili, perché è quello che rimane della memoria quando si crea un vuoto. Il movimento di queste tracce è dato dall’acqua che riesco a controllare così da creare dei disegni. Il lavoro era cominciato cercando di rappresentare l’idea del vuoto, del distacco e del recupero. Per questo ho voluto realizzare delle tracce e per tale motivo ho scelto di lavorare su dei miei lavori passati, perché doveva essere qualcosa che appartenesse alla mia memoria».
La sua vita, lavorativa e non, si svolge a New York. Sono 5 anni che non faceva una mostra in Italia. Cosa l’ha spinta a tornare?
«La prima mostra alla galleria Sara Zanin l’ho fatta nel 2009, e lei ogni 4 anni mi invita a presentare dei mei lavori. Inoltre, ho scelto Cecilia come curatrice perché la conosco da quando avevamo vent’anni ma non avevamo mai lavorato insieme. Così le ho chiesto di scrivere un testo critico senza essere influenzata da tutti gli anni trascorsi».
Il titolo della mostra “Nude” a cosa fa riferimento? Ci vuole indicare qualcosa che dobbiamo scorgere nelle sagome delle figure?
«“Nude” ha vari significati. Innanzitutto, per me questo nuovo processo è iniziato dall’idea di cosa rimane della nostra memoria; il vuoto che viene occupato da una traccia del passato. In quel periodo stavo ascoltando spesso una canzone dei Radiohead che si chiama, appunto, “Nude”. Nel video, il cantante, ha un’espressione come se cercasse di ricordare, di catturare un pensiero. Una strofa recita: “Ora che l’hai trovata, è andata. Ora che la senti, in realtà no. Sei andato fuori strada”. Perché nel momento in cui tu arrivi a quel ricordo, quello svanisce. Nel momento in cui lo senti tuo, l’hai già perso. Questo concetto è proprio quello che io, attraverso questi lavori, volevo rappresentare. L’elemento dell’acqua ha contribuito a dargli quella sfuggevolezza, come se i ricordi volassero. Poi ho trovato il titolo conforme, in quanto, sottraendo alla fotografia la sua anima l’ho resa nuda. Un processo per arrivare all’anima delle cose, alla struttura, alla sua sostanza, un lavoro molto minimale, quindi “Nude” mi sembrava la parola giusta».
Tra tutte le opere in mostra ce ne è una alla quale si sente più legata o che rimanda a un ricordo in particolare?
«Sono legata a tutte, ovviamente, ma in particolare ho un ricordo specifico per Untitled#24. Quest’opera è legata a una persona che oggi non c’è più. Proprio nel momento in cui la stavo creando si è formata la sagoma quasi come quella di una candela accesa».
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