La fascinazione della mia adolescenza per la street art, mi ha portato a selezionare negli anni forme artistiche anonime di occupazione dello spazio urbano, che corrono parallele, coprono e si appropriano di parti di immaginario distratto e si impongono al nostro modo di vivere lo spazio pubblico. Dalle frasi di Samo, ai bambini radiottivi di Haring fino agli space invaders o supermarios siamo arrivati per sottrazione concettuale ai bouquets morandiani che oggi popolano alcuni angoli del Marais parigino in un rincorrersi di strategie di acrobatici escamotages per stabilire una relazione identitaria con l’audience distratta e bulimica d’immagini contenute del nostro tempo accelerato.
Sempre più, dagli anni ‘70 a oggi, dopo l’orgia commerciale della graffiti art, il sistema dell’arte è stato colpito dalla potenza di una nuova tag, stencil o murales. Sono invece intriganti ed ammalianti altri percorsi di disseminazione decisamente più modesti, frutto di una diversa concentrazione che ricordano le tecniche fiabesche di Pollicino o la banalizzazione di attività desuete come il tricot o la composizione floreale dei maestri dell’ikebana.
Qualche anno orsono, a Parigi, a un angolo di strada molto vicino alla sede dell’Unesco, apparivano dei misteriosi arrangemements di fiori e verdure di scarto di un mercato rionale, composti con la sapienza di un maestro orientale posati sulla parte alta dei semafori. Per mesi ho documentato questa attività rituale assolutamente gratuita che aveva la forza selvaggia di un potlach ebdomadario e la qualità di Constance Spry, la fiorista dell’aristocrazia anglosassone degli anni 50. Due fanzine prodotte da @dejeuner_paris e un hastag #streetikebana sono probabilmente tutto ciò che resta di questo splendida avventura di street art, che probabilmente continua a essere prodotta senza riscontri.
Nella Oslo semideserta di questi giorni di lockdown da coronavirus, si è rivelato estremamente presente un altro lavoro che da qualche tempo inseguo e documento. È un lavoro che ha una relazione boettiana con l’immagine, una sorta di Instagram selvaggio che somma la qualità della prossimità fisica di una deriva situazionista metropolitana al lavoro di critica sociale.
Sono immagini verosimilmente scelte con cura, ritagli di giornali, riviste di tutti i tipi con immagini forti e spesso stranianti che vengono affisse con quattro semplici pezzetti di carta adesiva alle vetrine degli spazi in disuso. Per lo più applicate alle superfici lisce di fermate del tram o parti metalliche dell’arredo urbano, in modo molto discreto.
Questa proliferazione genera un’accumulazione di discorsi sul mondo, la stessa che milioni di persone operano con la comodità di un touch sullo schermo di uno smartphone, attraverso i social media e il feed costante di contenuti.
La bellezza di questa operazione è di rendere evidente la proposta di condivisione dell’immagine, attraverso la fisicità del contatto con una superfice e con il mondo che, oggi, ci è negato dal restare confinati in casa per le ottime ragioni che tutti conosciamo. La bellezza del ritaglio del reale con un tempo diverso di approccio alla vita.
Avevo preso l’abitudine di staccare collezionare, le immagini di questo/a/ questi artisti e improvvisamente la nuova paura del contagio ha reso ancora più evidente il lavoro politico insito in questa pratica. Una affissione silenziosa, antiautoritaria, che ha la forza delle pratiche collettive di desistenza e, al tempo stesso, la potenza della viralità dell’immagine.
Un lavoro perfetto prezioso, premonitorio. Stiamo probabilmente rendendoci conto che sono le immagini a sceglierci, e noi siamo diventati veicoli per la loro carica virale.
All’apice del suo punto di non ritorno, la nostra civiltà dell’immagine sta probabilmente riscrivendo i protocolli di somministrazione. In questo momento di crisi è importante capire quali saranno i nuovi comportamenti e valutarne l’efficacia, per una comunicazione decisamente più diretta.
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