“Gianni Colombo. A Space Odyssey” non è solo una grande retrospettiva dedicata a uno dei maggiori esponenti dell’arte cinetica e ambientale internazionale, ma è un vero e proprio viaggio nella storia di un clima artistico e di una galleria milanese, punto di riferimento di alcuni esponenti dell’arte cinetico-programmata italiana. In occasione dei 30 anni dalla scomparsa di Gianni Colombo, la galleria Giò Marconi, con il supporto dell’Archivio Gianni Colombo e la curatela di Marco Scotini, ha ricostruito il percorso dell’artista milanese. Si spazia dalle sue prime opere in ceramica degli anni Sessanta, fino alle strutture metalliche sospese e in movimento, degli anni Novanta, passando per la ricostruzione di alcuni ambienti fondamentali quali la Bariestesia del 1975 e la Topoestesia del 1977. La galleria ha sempre rappresentato una sorta di “navicella spaziale”, attorno cui gli artisti orbitavano, si incontravano e sperimentavano. Per questa ragione abbiamo intervistato Giò Marconi, per avere una testimonianza diretta del ricordo di Gianni Colombo e ricostruire il rapporto dell’artista con Studio Marconi.
Com’è nata l’idea del progetto di mostra?
«L’idea era di realizzare una grande mostra antologica, un tentativo di una galleria privata di dare una lettura storica di Gianni Colombo. Per questa ragione ho chiesto a Marco Scotini, direttore dell’Archivio Colombo, di curare il progetto. Avrei potuto semplicemente fare una mostra sulla collezione che mio padre possiede delle opere di Colombo, ma volevo fare qualcosa di più, volevo inserire molte più opere e soprattutto ricreare alcuni ambienti che Colombo aveva esposto da Studio Marconi, per dare una visione storica il più completa possibile del lavoro dell’artista, delle sue collaborazioni e il suo rapporto con lo Studio Marconi».
Che relazione aveva suo padre con Gianni Colombo, qual era il clima dello Studio Marconi?
«Alle ore 12 di ogni giorno si riunivano gli artisti in galleria, quelli che vivevano a Milano e anche quelli che semplicemente erano di passaggio, tra cui: Valerio Adami, Enrico Baj, Lucio Del Pezzo, Grazia Varisco. In particolare, Gianni Colombo, Emilio Tadini, Gianfranco Pardi con l’illustratore Tullio Pericoli erano delle presenze fisse “all’appuntamento” e insieme parlavano di politica e di arte, leggevano e commentavano le informazioni che uscivano sulle riviste come Flash Art, Artforum e Art in America. Poi andavano a pranzo tutti insieme al ristorante di fianco alla galleria. Era un ambiente atipico, un laboratorio di idee, in cui gli artisti collaboravano direttamente con mio padre suggerendogli mostre da realizzare e portavano in galleria nuovi artisti. Per esempio, Adami portò Hockney, Pomodoro fece conoscere Nevelson, Colombo introdusse Morellet e Von Graevenitz e insieme fecero una collettiva nel 1973».
Allo stesso modo anche suo padre stimolava gli artisti alla sperimentazione?
«Sì, esatto, mio padre coinvolgeva gli artisti in tutti gli aspetti del suo lavoro, vi era un reciproco scambio. Emilio Tadini aiutava nella redazione dei testi, Gianfranco Pardi disegnava gli inviti delle mostre, che erano piccole opere d’arte molto suggestive. Poi c’era la rivista della galleria a cui tutti partecipavano insieme a curatori e critici. Ma non solo, gli artisti collaboravano proprio all’architettura e alla definizione degli spazi della galleria e man mano che si ingrandiva chiedeva loro un aiuto su come farlo. Sempre Gianfranco Pardi, per esempio, ha disegnato la scala di cemento del montacarichi della galleria. Non a caso proprio per Studio Marconi, Gianni Colombo ha realizzato importanti ambienti come Bariestesia del 1975».
Che ricordi ha di Gianni Colombo? Che tipo di persona era?
«Ho dei bei ricordi, era un personaggio molto simpatico e riservato. Indossava sempre un “chiodo”, un giubbotto in pelle dallo stile un po’ punk con i jeans e gli stivali. Viaggiava molto, spesso andava in Germania o in Svizzera dove il suo lavoro ha avuto più successo e riconoscimenti».
Quanto è importante mantenere la memoria storica? E proporre artisti storicizzati sul mercato?
«Mi interessa molto rileggere la storia dell’attività di mio padre e portare alla luce alcuni artisti italiani che hanno segnato un’epoca. Su Gianni Colombo non veniva fatta una retrospettiva da quella del Castello di Rivoli nel 2010 e la ricorrenza dei 30 anni dalla sua scomparsa mi sembrava un’occasione per riportarlo in mostra a Milano. La stessa operazione l’ho fatta anche con Mario Schifano nel 2020 e vorrei continuare queste riletture anche nel futuro. Nel frattempo, sto lavorando alla pubblicazione di un libro con Mousse sulle riviste pubblicate nel tempo dalla galleria: mi sembra importante farle conoscere al pubblico».
Che rapporto c’è tra i suoi artisti e quelli di suo padre?
«Ai miei artisti più giovani e internazionali, piacciono questo tipo di mostre, ammirano i lavori dei maestri più storicizzati ed è importante per loro conoscere quelli che sono stati i loro “compagni di strada” per studiarli, confrontarsi e guardare al loro lavoro».
Secondo lei qual è l’opera più significativa di Gianni Colombo?
«Gli ambienti, per me sono le sue opere più belle e significative di tutto il suo percorso artistico».
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