Washington DC, 20 gennaio 1961: John Fitzgerald Kennedy diventa presidente degli Stati Uniti. Pochi mesi dopo, i primi elicotteri americani arrivano a Saigon, dando inizio al loro coinvolgimento nella guerra del Vietnam.
Quarant’anni più tardi, l’11 settembre 2001, sotto la presidenza di George W. Bush, quasi tremila persone muoiono sotto il più drammatico attacco sul suolo americano dopo Pearl Harbor.
Durante questo arco cronologico, denso, contraddittorio e problematico, gli equilibri mondiali cambiano per sempre e, con loro, il mondo dell’arte, travolto da un tornado emotivo e creativo che darà vita ad esperienze profondamente diverse fra loro.
“American Art 1961-2001” a Palazzo Strozzi ripercorre un’epoca storica importante, attraverso la voce di cinquantatre artisti, oltre ottanta opere, undici sale espositive e moltissime testimonianze della poliedrica produzione artistica americana di questi decenni tra pittura, videoarte, fotografia, scultura e installazioni.
Infinite le chiavi di lettura in questo panorama eterogeneo, così come le tematiche affrontate: la società dei consumi, il femminismo, le lotte per i diritti civili, la contaminazione fra le arti, questioni di genere e una profonda riflessione sull’idea di American Dream, sul ruolo delle donne nell’arte americana, delle minoranze e delle comunità storicamente escluse dal sistema dell’arte.
La mostra, curata da Vincenzo De Bellis, Curatore per le Arti Visive del Walker Art Center, e dal direttore di Palazzo Strozzi, Arturo Galansino, presenta opere provenienti dal Walker Art Center di Minneapolis, e chiude una trilogia di esposizioni dedicate alla ricerca artistica degli Stati Uniti d’America, di cui Palazzo Strozzi è stato ambasciatore.
A supporto del visitatore, un’ampia gamma di strumenti supplementari come un ricco calendario di eventi e incontri, kit per famiglie e teenagers e una piattaforma online, American Art On Demand, dove i possessori del biglietto hanno accesso a una speciale sala virtuale dedicata al lavoro di artisti che hanno utilizzato le immagini in movimento nell’ambito della performance, dell’arte concettuale e dell’estetica postmoderna.
Arte americana, o, come sarebbe meglio dire, arti americane, a testimoniare il fatto che una sola storia dell’America e della sua arte non può esistere, ma ci sono, piuttosto, innumerevoli storie, fil rouge, e figure che aprono il punto di vista su nuove prospettive e che raccontano un complesso melting pot di culture, tradizioni e identità diverse e una società stratificata e complessa.
Ad aprire le danze di questa complessa narrazione, Changes, un ponte fra passato e futuro, fra Vecchio e Nuovo Mondo, testimoniato da Louise Nevelson e Mark Rothko, entrambi nati in Europa e trasferitisi negli Stati Uniti ancora bambini, simboli del traghettamento culturale fra Europa e America, così come lo era stato Marcel Duchamp.
Entrambi sono accomunati dallo stesso spirito visionario di matrice ebraica che si traduce in un senso religioso e mistico dell’arte, ma anche dal legame con il formalismo sostenuto da Clement Greenberg.
Subito dopo, il racconto del sogno americano del dopoguerra, e la critica alla cultura di massa, è affidata a Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Robert Indiana, Claes Oldenburg e dunque alla Pop Art americana, finalizzata a riportare l’arte ad un confronto diretto con la realtà, privandola della mediazione personale.
A Warhol, in particolare, non poteva che essere affidato il ruolo centrale di deus ex machina che traccia uno spartiacque nel panorama artistico mondiale, e che troviamo presente all’interno del percorso espositivo con diversi capolavori.
Fra questi Sixteen Jackies del 1964, realizzato in risposta all’assassinio di Kennedy nel 1963, e le altrettanto celebri Brillo, Campbell’s, Heinz e Kellogg’s Box.
Se oggi queste scatole in legno ci trasmettono un’atmosfera un po’ nostalgica, racchiudendo in se stesse il senso di un’epoca, riecheggiano ancora come monito per tutta la mostra le parole di Arthur C. Danto: «prima del 1964 le scatole di Andy non avrebbero mai nemmeno potuto essere arte».
Altro protagonista indiscusso della narrazione, anche se assente fisicamente con opere in mostra, è Duchamp, il cui spirito rivoluzionario aleggia come riferimento delle nuove generazioni, come dimostrano le opere Walkaround Time di Jasper Johns del 1968, trasposizione del Grand Verre in scenografia plastica per un balletto di Merce Cunnigham realizzato in collaborazione con Robert Rauschenberg, o Fountain (1991), orinatoio in bronzo dorato di Sherrie Levine, omaggio al ready made del 1917.
Un’altra sezione della mostra è dedicata al Minimalismo, caratterizzato dal raffreddamento gestuale ed emotivo e da un’arte impersonale come reazione al dramma della guerra del Vietnam: opere di Frank Stella, Donald Judd, Dan Flavin, Sol LeWitt, Robert Morris, ma anche di artiste femminili come Ann Truitt e Agnes Martin.
Il preponderante campo della scultura si allarga poi alla body art e alla video installazione con Art Make-Up di Bruce Nauman fino ad arrivare a Cremaster Cycle di Matthew Barney (1994 – 2002), una narrazione in cinque episodi popolata da personaggi ibridi, post-umani, dal corpo plasmabile e soggetti a trasformazioni bio tecnologiche.
Nelle ultime due sale le opere urlano tematiche sociali, raccontando delle minoranze e delle comunità LGBTQ con artisti come Mike Kelley, McCarthy, Catherine Opie e Mark Bradford.
Chiude la mostra Kara Walker, che segna la fine del vecchio millennio e l’inizio del nuovo, rileggendo la storia americana nell’ottica dei temi quali la schiavitù, le violenze, le oppressioni utilizzando media differenti. Le sue silhouette delicate e allo stesso tempo violentissime, nello stile dei film muti degli inizi della storia del cinema, raccontano vicende di padroni e schiavi, linciaggi e stupri.
Arte Americana è un viaggio nel tempo, in cui l’opera d’arte sta nell’esperienza e si determina a partire dall’osservazione dinamica di questi oggetti dentro un dato spazio e dal loro rapporto reciproco.
Opere diverse fra loro che vivono nella dinamicità della percezione, e che si esperiscono di volta in volta in maniera diversa, contingente, determinando e invadendo lo spazio vitale del visitatore.
Una narrazione per immagini di un quarantennio fondamentale per la storia dell’arte e dell’umanità, osservato attraverso un particolare punto di vista: vent’anni dopo, nel bel mezzo di un altro tornado storico e emotivo, quello dell’emergenza sanitaria.
Allora come oggi, l’arte figlia di momenti storici particolarmente difficili invita a una riflessione: dopo essersi conquistata un territorio di rottura, l’arte sopravvive a tutte le crisi politiche ed economiche del mondo per rinascere in qualcosa di nuovo.
Sorpassando la sfiducia del reale, all’arte del nostro tempo è affidato il compito di sostenere miraggi futuri, e spronare coscienze rivoluzionarie che hanno il ruolo di rassicurare.
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