Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana abbiamo raggiunto Matteo Bosi.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Tutto può essere arte, nel mio caso la mia creatività è il motore di un percorso verso una intima profondità, di analisi sull’identità personale e collettiva. Lavoro attraverso l’uso e la ricerca di simboli e radici culturali collettive oltre che personali. “Noi siamo ciò che ricordiamo di essere stati”. Questo è ciò che ho scritto nell’introduzione di un lavoro di ricerca legato alla manipolazione di vecchie cartoline-ritratto. Credo che questa frase raccolga in pieno il mio agire».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Il non sentirmi parte – o meglio – l’essere straniero e marginale mi aiuta a tracciare nuovi percorsi».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«In questo tempo è fondamentale, però nella narrazione quotidiana siamo il risultato di un artificio, manipoliamo anche la percezione che gli altri hanno di noi. La finzione e la manipolazione del linguaggio sono alla portata di tutti. L’uso massiccio dei social media ha uniformato il linguaggio a modelli di comunicazione generati da algoritmi. Oggi l’Apparire sostituisce l’Essere e questo ci espone a un rapporto strano con il nostro tempo una sorta di loop del tempo presente, in cui l’unica vera gratificazione consiste nei like ricevuti».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Credo non esistano più facili classificazioni. I concetti di bello e di prodotto artistico non sono più legati a qualche linea di pensiero. L’arte è globale e globalizzata, chiunque può produrla. L’offerta ha superato di molto la domanda e questo ha generato un piacevole cortocircuito. Trovo nel rifiuto il mio valore di rappresentanza, il mio non sentirmi parte. Non sentirmi di casa mi aiuta a mantenere una prospettiva e una traiettoria ancora interessante da seguire. Essere fuori contesto e legato più al passato che al presente/futuro è la mia comfort zone».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Non esattamente, il mio agire creativo non ha nessuna finalità pubblica, produco ed espongo pochissimo. Negli ultimi dieci anni il “rumore di fondo” che sento intorno ad ogni evento pubblico o pubblicato mi ha portato a limitare molto il mio desiderio di espormi».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«A questa domanda la risposta mi viene facile: ho sempre avuto una grande passione per la musica underground. Sicuramente mi sarebbe piaciuto fare il musicista, sebbene non abbia nessuna competenza in materia se non quella del suo semplice fruitore».
Matteo Bosi è nato nel 1966 a Cesena. Ama sperimentare e per questa ragione il suo lungo percorso artistico è caratterizzato da una continua ricerca. Utilizza molteplici strumenti espressivi. È alla fine degli anni ‘80 che comincia a lavorare con la fotografia analogica, arrivando in pochi anni ad utilizzare anche le tecniche digitali. Sono della metà degli anni ‘90 le prime serie di fotografie manipolate in post produzione o dipinte a mano raccolte nella serie Ultra Homines. In seguito ha prodotto numerose fotografie, esponendo la sua arte in numerose collettive e personali in gallerie di tutta Europa.
Sono degne di nota alcune menzioni speciali quali il premio celeste e le due edizioni del Tau Visual Italia. Nel 2013 Matteo Bosi si è recato a Mosca per una mostra personale e l’anno successivo a Barcellona a chiusura di un ciclo e di una importante collaborazione internazionale. Nel 2015 torna ad esporre nella sua città natale con una retrospettiva curata da Gian Ruggero Manzoni per poi approdare l’anno successivo all’importante evento internazionale Nord Art in Germania.
Le sue fotografie, già inserite nel progetto DOC Centro di Documentazione Arti moderne e contemporanee in Romagna (Imola), sono anche presenti nell’importante cornice del progetto espositivo Esercizi dello sguardo, Centro Culturale Mercato di Argenta (Fe) 2018. Dal 2000 lavora anche da libero professionista come communication designer.
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