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Other identity #3. Altre forme di identità culturali e pubbliche: intervista a Francesca Fini
Arte contemporanea
Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana abbiamo raggiunto Francesca Fini.
Other Identity: Francesca Fini
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«L’arte per me è una sublimazione del mio vissuto e del mio mondo interiore, è di fatto cercare di esprimere un immaginario fatto di suggestioni inconsce che, con un processo di sintesi assolutamente onirica, di montaggio interiore, mescolano reale e virtuale. Il mio lavoro è cercare di mettere insieme non tanto i frammenti di un mosaico, ma i frammenti di uno specchio, in cui al mondo di fuori si sovrappongono le mie immagini interiori. In tal senso mi sento davvero un’artista surrealista 2.0, perché per realizzare questa sintesi io utilizzo la macchina, la nuova protesi del mio io digitale, i dispositivi e gli strumenti che altri artisti del passato non avevano a disposizione.
Devo dire che per questo motivo non parlerei di una mia rappresentazione di arte ma di una mia espressione di arte; qualcosa che porto fuori e che è intimamente mio, personale. Qualcosa che non raffiguro esteriormente in una forma di rappresentazione ma che trasuda dal costante lavorio di un’interiorità che lascio a briglia sciolta, governandola di tanto in tanto con il timone della tecnica. Altro elemento interessante: Cibernetica deriva etimologicamente dal termine greco kybernetiké, ovvero l’arte del governare l’imbarcazione, grazie ad una mescolanza di tecnica, esperienza e soprattutto di quel complesso e indescrivibile sistema di percezioni a livello epidermico che il timoniere riceve attraverso il timone dallo scafo, dalle onde, dalla corrente (il feedback)».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«La mia è da sempre un’identità ibrida, che va oltre l’identità di genere e in qualche modo la rende irrilevante. In un certo senso sono la prova delle tesi periferiche di Donna Haraway, dell’idea che la tecnologia, nel suo processo di contaminazione tra la natura biologica della donna e la macchina, apre la porta a tutte le possibili e infinite ibridazioni, rendendo completamente obsolete le antiche distinzioni e definizioni della cultura cartesiana.
Viviamo già nel Chthulucene, in un’era tentacolare, fatta di metamorfosi continue nella continuità del digitale, nei gradienti di un pensiero nuovo quantistico. In tal senso il pensiero pionieristico della Haraway e rappresentato perfettamente dalla famosa immagine di copertina della prima edizione del libro, Manifesto Cyborg, del 1985, con una donna davanti ad una tastiera, con il capo coperto dalla pelle di una leonessa. Ancestrale e futuro di mescolano, perché il concetto di cyborg è un rifiuto a priori dei confini rigidi che separano “umano” da “animale” e “umano” da “macchina”».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Attribuisco alla mia presenza pubblica pochissima importanza. La mia presenza sociale e pubblica è da tempo riservata solo al mio lavoro, io voglio apparire solo attraverso le cose che realizzo, con cura e dedizione estrema, e che rappresentano la sintesi che ho descritto. Quello che penso al di fuori di questo è irrilevante. Io penso che gli artisti dovrebbero essere giudicati solo per le opere che producono».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Il mio lavoro è molto legato all’idea di riappropriazione, di ready-made e di “plagio” creativo. Io lavoro in maniera ossessiva con il passato, cercando di restituire una dimensione e un sapore nuovo alle immagini recuperate, re-inventandone un senso all’interno di uno scenario contemporaneo, e, soprattutto, in movimento. Il mio dispositivo ideale è la macchina del tempo attraverso cui viaggiare avventurosamente, riportando a casa le reliquie incontrate e collezionate lungo il cammino. Solo il digitale rende questo viaggio possibile.
Le immagini con cui lavoro sono antichi ritratti, fotografie vintage, simulacri in posa che sublimano nella fissità di una luce artificiale e in contesti studiati e scenografici un’idea del mondo che non c’è più. Il movimento è un’idea moderna e rivoluzionaria, come avevano intuito splendidamente i futuristi, e nel mio operare si trasforma in un dispositivo poetico che definisce la cifra stilistica del mio lavoro.
In tal senso ho sviluppato il concetto di Fake-Found-Footage per descrivere la mia idea di rappresentazione, che consiste nel ritagliare queste immagini fisse dal loro contesto immobile, e animarle inserendole in nuovo scenari tridimensionali, facendo raccontare loro storie diverse, nuove, immaginifiche ed estremamente contemporanee.
Questo stesso principio lo applico non solo all’archivio intero delle immagini umane attraverso al storia am anche al mio archivio personale e familiare. Nel mio video ‘Mother-Rythm’, io incontro idealmente mia madre nel passato, manipolando con photoshop le sue vecchie foto e inserendo la mia immagine di quando avevo la sua età. Quando le foto originali andranno perse, forse rimarranno queste foto manipolate e diffuse in rete e io sarò di fatto diventata una sua coetanea grazie al digitale, grazie alla macchina del tempo».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Io preferisco il termine artista intermediale, per definire il mio campo specifico, dinamico, che è quello di una curiosa esploratrice che si muove attraverso i media».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Nessuna».
Biografia
Francesca Fini è un’artista interdisciplinare che da anni si muove in quel territorio di confine dove le arti si ibridano, cercando di distillare una sintesi personale proprio nel linguaggio performativo e videoperformativo contemporaneo. Ha la sua base in Italia, ma espone, ricerca e lavora in tutto il mondo.
Negli anni ha presentato il suo lavoro al Museo MACRO e MAXXI di Roma, al Guggenheim di Bilbao, al Schusev State Museum of Architecture di Mosca, alle Tese dell’Arsenale di Venezia, al Georgia Institute of Technology e in numerosi ambiti accademici nazionali e internazionali. Ha performato a Toronto per FADO Performance Art Festival, a Chicago per Rapid Pulse Festival, a Belo Horizonte per FAD Festival De Arte Digital, a San Paolo e a Rio per FILE Electronic Language International Festival, a Madrid per IVHAM e Proyector Festival, a Mumbai per Kala Ghoda e a Tokyo per il Japan Media Arts Festival.
A Venezia ha preso parte alla prima Venice International Performance Art Week, nei suggestivi spazi di Palazzo Bembo. Nel 2014 e nel 2016 è stata selezionata da Bob Wilson per partecipare alla residenza artistica presso il Watermill Center di New York, e successivamente invitata alla Triennale di Milano per un evento del Watermill presso l’Illy Art Lab.
Nel 2016 ha ultimato il film sperimentale Ofelia non annega (con Istituto Luce Cinecittà), inserito da Adriano Aprà tra i migliori film italiani degli ultimi 20 anni. La Treccani cita Francesca Fini alla nuovissima voce cyber-performance, come una degli artisti più significativi di questo linguaggio in Italia.