Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana l’ospite intervistato è Eleonora Manca.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Il mio modo di fare arte per certi versi rispecchia e annulla il mio incedere nel mondo. Fisicamente, emotivamente, intellettualmente, spiritualmente appartengo certamente alla stirpe degli ibridi; a coloro che vivono “sospesi” su una sorta di crinale, mai arginabile appieno; come un essere che non sa dire «tre-tigri-contro-tre-tigri» senza incespicare e senza che la lingua si arrovelli su inusitati piani di “ascolto” e “visione”. In egual modo mi muovo quando creo. C’è una costante verifica empirica di ogni possibile grado zero dell’immagine che rivela tutta la sua debolezza e al contempo tutte le sfaccettature prismatiche possibili. Ed è esattamente lo sguardo prismatico ad interessarmi; i diversi piani percettivi, il randagismo dei linguaggi: ora teatralizzati, ora plurali, ora silenziosi. C’è assenza, presenza assente, insufficienza. Un costante provvisorio definitivo.
Mi interessa la domanda, raramente la risposta. Racconto di metamorfosi, sostando proprio nel meta, di memorie e memorie del corpo. Lavoro con e sul corpo. Non faccio distinzione fra parola e immagine (per me entrambe icone). Ho la possibilità – direi pressoché infinita – di restituire un documento – di pelle, emozioni, dolori – che necessariamente sfora in un altrove; un altrove nel quale ognuno possa ritrovare anche un po’ di sé o un qualcosa che credeva rimosso, dimenticato. È come se restituissi solo l’‘interno’, una rappresentazione che si supera nella trasformazione.
Di fatto, non esistono “fatti” personali se raccontati. Al contempo si tratta di essere contemporaneamente luogo, carne e immagine dell’esito artistico finale. Lo sguardo su di me è dunque introspettivo nella misura in cui tendo a concentrarmi sul restituire un’opera che non giri su se stessa perché è uno sguardo atto a de-costruire il soggetto, il quale assume una nuova forma mediante sia la foto – e/o il video – che ne nasce sia grazie all’occhio dell’astante. «Io mi mostro» (nell’accezione fenomenologica) dunque io esisto e non esisto, ma questo è possibile unicamente in uno, due, cento frammenti di me che si disperdono, che si ri-assemblano legati da accenti spesso incomprensibili anche a me, ma che assecondano il tempo necessario al “cambiar pelle”.
Intraprendere un lavoro performativo in cui il primo attore è anche colui che registra l’‘atto’ pone dinnanzi a una specie di onestà: la fotografia – e il video – non sono la ricerca spasmodica della mia esperienza psichica (e quindi mai storica), bensì strumento alla pari con la mia esistenza. L’immagine che nasce non mi ‘appartiene’ e quindi ha la possibilità e il compito di avere un’eco.
Ciò che mi interessa è il sondare non il vedersi, ma il vedersi visti; come se l’agente fosse sì anche l’oggetto di indagine, ma al contempo entità “altra”, “virtuale”, “astratta”. Dietro lo specchio, non per dirigere i giochi, ma per imparare a vedere attraverso altri punti di vista. Mi verrebbe da sintetizzare così. Penso a Barthes: “La fotografia non è mai altro che un canto alternato di ‘Guardi’, ‘Guarda’, ‘Ecco qua’”. E subito dopo penso al rovesciamento di tutto questo».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Se “io è un altro” figuriamoci il sé (da intendersi come identità, come appartenenza a un gruppo: costrutti accatastati l’uno sull’altro – senza una santa dissidenza – a partire da una epistemologia esclusivamente binaria di sistemi socio-politici-economici); in ragione di questo non intendo appartenere a nessuna identità, a nessuna soggettività (né privatamente né pubblicamente). “Siamo stati divisi per norma. Tagliati in due. E poi costretti a scegliere una delle nostre parti. Quello che denominiamo soggettività non è altro che la cicatrice lasciata dal taglio della molteplicità che saremmo potuti essere”, tuona Paul B. Preciado in una delle sue straordinarie riflessioni.
Mi appello dunque alla molteplicità che sarei potuta essere, al rivendicare il diritto di essere molteplice, inafferrabile perché mutante. Non voglio nessuna definizione, non mi interessa fissare nessuna identità, nemmeno in terza persona. Intendo guardare la mia pelle che cade dalla schiena».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Faccio molta fatica a digerire che sia più importante parlare dell’artista anziché della sua opera. La biografia di un artista non è niente senza ciò che ha creato, senza le prove di creazione, gli errori, gli inciampi, le sperimentazioni, la ricerca. Anzi, suppongo che questo valga per ogni essere umano. Non mi interesso minimamente della mia apparenza sociale e pubblica. Oltre le due parole per spiegar-si l’errore è quello di cadere subito nella giustificazione. Se appaio in un certo modo per alcuni (o in un altro per altri) è perché è complicato liberare il permesso di immaginare».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Se l’arte fosse un diario double-face delle forme immaginate, allora sarebbe bello pensare che esiste un’incubazione continua sin dalle prime pagine e un continuo provare a realizzare una sfuggevole e ribelle sintesi delle arti (tanto agognata dalla prima avanguardie storiche) che assuma di volta in volta i contorni di un futuristico già visto, ma mai compreso pienamente. Una inedita fenomenologia della rappresentazione costruita (e de-costruita) a partire da errabondi atti mancati. Vien da sé che in questa logica, priva di ruoli ma fatta esclusivamente di corpi viventi, il mio contributo deriva da un (nuovamente) ibrido codice poetico scevro da ogni possibile credito singolare».
Il nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Definisci artista, occhi e mondo. Tutte queste parole nella stessa frase non riesco a leggerle, né a trovarne una comprensione che possa farmi rispondere onestamente».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Una delle parrucche di Andy Warhol».
Biografia
Laureatasi con una tesi sulle Avanguardie russe, Eleonora Manca (Lucca, 1978) è una visual artist che utilizza vari media (principalmente fotografia, video, poesia visiva e libri d’artista) al fine di creare percorsi comunicativi mediante installazioni e micro-narrazioni (spesso attraverso la compenetrazione tra immagine e parola col fine di dare origine a una forma ibrida di codice poetico). Il suo lavoro ruota attorno i temi della metamorfosi, della memoria e della memoria del corpo.
«Ché qui ci interessiamo della carne, non dell’io. Del sangue che non circola o che circola anche troppo e che si fa apprendimento. Ché qui siamo già oltre al corpo come rappresentazione perché ci piace di più il corpo come trasformazione. Ché qui riusciamo a dare perfettamente del “tu” anche a dio… tanto perché è colpevole di aver aggirato l’ostacolo abbandonando il corpo» (EM).
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