Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana abbiamo raggiunto Ray Banhoff.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire; Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Forse siamo arrivati al punto che Carmelo Bene aveva teorizzato anni fa: diventare un’opera d’arte. Siamo spettacolarizzati come dici tu, ma non necessariamente è un male. La differenza tra arte e qualcosa che è solo posa è lampante anche agli occhi di un profano. Anni fa rimasi sconvolto dall’entrare nella casa di Picasso a Parigi. C’erano i piatti, le ceramiche e le tovaglie su cui disegnava, i tovaglioli che a volte illustrava per non pagare il conto al ristorante. Era in grado di proiettare un mondo in tre tratti anche su una scatola di cartone. Amo più quei suoi lavori, così “materiali”, così “necessari” che tanta della sua produzione più celebre».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«La mia identità parte camuffata dall’inizio, per me che mi firmo Ray Banhoff. Sono diventato Banhoff per non essere Gianluca, per poter parlare liberamente, per trovare la forza di non farmi problemi rispetto a niente. Tutto questo nel 2009, prima del boom dei social. Siamo pieni di dogmi imposti dalla famiglia e dalla società, pieni di menate. Volevo togliermeli tutti e diventare uno straniero. Anni fa non rivelavo a nessuno il mio nome vero, oggi ci ho fatto la pace. Adesso la mia identità è la mia firma. Gente che legge una frase e capisce che è mia, o che vede uno scatto e lo associa a me. Voglio diventare un aggettivo: banhoffiano.
Non credo nei generi, o quantomeno è un argomento che proprio non sento mio. Uomini e donne si trovano e si annusano e vivono una vita sessuale di stimoli continuamente in contrasto. L’arte che si occupa di questi temi solitamente mi annoia tanto, a meno che non si tratti di qualcosa di necessario per l’artista, qualcosa che sia a costo della vita».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Per me conta molto nel senso che nella Società conta molto. Siamo in una società totalmente globale, in cui l’immagine è messa al primo posto. Da una parte questa cosa è aberrante, rischia di trasformare le persone in macchiette di se stesse. Dall’altra è uno stimolo: devi mostrarti al mondo. Sta a te scegliere come sei, sta a te rappresentarti. Non è male come sfida e se la segui puoi anche arrivare a un nuovo Te».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Il richiamo e il plagio di cui parli sono inevitabili ormai. Ma è qualcosa di cui non mi occupo. Siamo sovraccaricati di input da mattina a notte fonda con internet, i social e decine di migliaia di foto, opere, mondi. Siamo sovraesposti alla rappresentazione artistica più che in ogni altra epoca storica. Alla fine ti sembra che tutto ciò che vedi sia identico. In un anno se ricordo tre foto che mi hanno colpito è già tanto. Ma non credo di essere qui per innovare, io stesso mi ispiro a artisti da cui ho imparato l’uso della luce o dell’obiettivo. Non tutti gli artisti devono essere per forza degli innovatori. Come scrive Houellebecq: in poesia ne nasce forse uno ogni secolo e spesso non è nemmeno un poeta».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Sì credo di essere un artista. Ma fammi spiegare. Non credo di essere un’artista perché faccio foto o scrivo e perché il risultato sia buono, credo di esserlo per come vivo. Sto in un paesino dove tutti si conoscono e nessuno sa chi sono. Sono arrivato qui da Milano, mi vesto strano, ho i capelli lunghi e la barba, compro le toppe per i miei giubbotti a 29 Palms in California e addobbo la mia casa con stampe che arrivano dall’Argentina o dal Brasile. Per la gente di qui sono un alieno. Al tempo stesso un oggetto di interesse. Tramite me e le dicerie sul mio conto viaggiano in altri mondi, a volte ne restano pure affascinati. Mi interessa solo costruire il mio scenario mentale di stimoli. Sono devoto al Bello e in questo sono un artista. O il matto del paese, che poi per me è la stessa cosa».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Forse l’unica altra identità che avrei avuto ottenere è quella del riconoscimento. Milioni di persone che seguono il mio lavoro, che osservano ciò di cui parlo. Avrei voluto un Banhoff in tv da Fazio dopo il Papa o esposto a New York. Ancora non l’ho avuto ma non è detto che non ci riesca. Ah, e poi avrei voluto saper disegnare bene».
Si firma Ray Banhoff ma è italianissimo. Classe 1982, nato in Toscana, inizia a collaborare come freelance con Il Tirreno negli anni dell’università. Dopo la laurea si sposta a Milano dove scrive e scatta per Riders, City, Playboy e tanti altri. Nel 2013 è co-fondatore di writeandrollsociety.com. Dal 2011 al 2016 è il fotografo ufficiale di Radio 105, Virgin Radio Italia e RMC. Nel 2015 pubblica “Banhoff street vol.1 – Fie”, un lavoro di tre anni in cui ha scattato solo donne per le strade di Milano e di nascosto, accolto con particolare attenzione dalla critica. Nel 2016 partecipa a due mostre collettive, Phone photography organizzata dal CIFA (centro italiano della fotografia d’autore) e Ca Brutta 1921 esposta a Milano al Castello Sforzesco, entrambe curate da Giovanna Calvenzi.
Il suo ultimo libro, “Vasco Dentro” (Crowdbooks), racconta un viaggio di due anni all’interno del mondo dei sosia di Vasco Rossi. Attualmente collabora con Rolling Stone e MOW.
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