L’ho presa in prestito da Johann Wolfgang von Goethe: “come Palermo mi abbia accolta, non ho parole bastanti per dirlo”. Ci sono talmente tante cose e così belle e così complesse che riesco a mostrarne soltanto un piccolo aspetto. Non so, qui, dire tutto. Posso rappresentare le sensazioni che mi sono rimaste addosso, e anche di queste solo in minima parte.
C’è uno spazio, in Via Gagini 59, che basta vederlo una volta per non dimenticarlo più. Animato, tra gli altri, da Diego Miguel Mirabella e Davide Mineo, lì mi hanno condotta i Genuardi/Ruta, insieme con Giuseppe Buzzotta. E quell’impressione di un’identità molto particolare e di una bellezza tutta loro voglio raccontarla. Senza abbigliarla, senza ghingheri. Solo con la voglia di farla scoprire.
Prima ancora che nella Cappella Palatina, che dai pavimenti ai soffitti a volta è tutta d’oro, ho visto i mosaici di Diego Miguel Mirabella. Originario di Enna (1988), ha vissuto a Londra, a Bruxelles, a Roma. Oggi sta a Palermo, città greca per le origini, romana per il ricordo delle lotte contro Cartagine e araba per le piccole cupole di alcune chiese, eredi delle moschee. Da qui continua i suoi viaggi in Marocco, raccogliendo suggestioni e decori destinati a evolvere in sempre nuove progettazioni. Sapientemente Mirabella sa dare un senso al valore di ogni singola tessera che prende forma nei suoi mosaici che vanno oltre qualunque collocazione geografica e temporale. Arricchiti di una parola o di una frase assurgono ognuno a un differente processo di conoscenza. Come scheletri che sottendono la creazione, svelando la diversità come il prodotto di una varietà quasi infinita di combinazioni geniali. L’abilità che Mirabella possiede, non solo ceramica, corre consapevolmente anche in una direzione grafica sorprendente. Servendosi della sua firma come un decoro, non semplicemente apposto sulle ceramiche, ma fuso, con un terzo stato di cottura (sì, tra le strade della bella Palermo Diego mi ha fatto una breve lezione di tecnica ceramica), Mirabella riesce a scardinare definitivamente il confine tra forma e contenuto concettuale, approdando a una dimensione concretamente “decorata, decorosa, distratta” – che incarna il suo manifesto (Decorato Decoroso Distratto).
Accanto a lui ci sono le forme di Davide Mineo (Palermo, 1992), che si fanno guardare e si guardano, ostinatamente, per intuire cosa siano, per ricondurle entro “definizioni” note, per capire come siano fatte. Queste opere, manifestazioni concrete di un’essenza, sono realizzate su tela, tessuti industriali e pelle sintetica, scritte di studi e di note, dipinte con colori acrilici, e infine fisicamente agite, formate e sagomate. Sono predisposte al cambiamento, per necessità e virtù, in relazione all’ambiente in cui si originano, si evolvono e trovano sostanza. Mineo mi dice che sono monumenti, che però non commemorano un passato. Gilles Deleuze ci suggerisce che sono blocchi di sensazioni presenti che devono solo a se stessi la loro propria conservazione. Sono istintivamente studiate, in questo risiede il loro punto di forza. Perché ammettono un incredibile raddoppiamento: in esse assenza e presenza, invisibile e visibile si sostengono reciprocamente. E perché restituiscono al corpo – inteso come porzione di materia definita da una o più proprietà che le conferiscono una individualità – dunque materico, dunque ambientale, il suo ruolo nell’esperienza estetica: quello di co-creatore dell’opera, non soltanto in una dimensione fenomenologica ma nel pieno riconoscimento di abitare lo spazio espositivo con l’opera, stabilendo quindi inevitabilmente una relazione unica e personale.
La scrivania di Mineo si presta (anche) per la scoperta dell’universo di geometrie, colori e segni di Genuardi/Ruta – Antonella Genuardi (Sciacca,1986) e Leonardo Ruta (Ragusa,1990). Esiste un perenne scarto tra la forma esterna delle circostanze, contrassegnata da un ordine che regola e sovrintende tutto, e quella che invece è la loro effettiva potenzialità. Genuardi/Ruta unendo la vocazione del colore e la tensione segnica scardinano la manifesta realtà delle cose così come appaiono. Studiando lo spazio in cui operano e ridisegnando l’architettura attraverso geometrie nuove e visionarie, che si originano dall’incontro della luce con i volumi, Genuardi/Ruta danno vita a forme che appaiono reali perché sono immediate. Ma se comprendiamo il legame tra realtà e rappresentazione, così come dialetticamente esiste all’interno di un’opera, risulta con estrema chiarezza che ciò che si percepisce come immediato è in realtà un rapporto, sapientemente mediato, tra esperienza e medium. Le loro opere impegnano la realtà e la realtà può essere intesa e immaginata oltre la rappresentazione, ma è altresì vero che tutto dipende dall’utilizzo delle tecniche dei Genuardi/Ruta di fronte alla potenza della luce e alla portata dello spazio architettonico: da questo incontro nascono le infinite e imprevedibili relazioni formali che ridisegnano ontologicamente sempre nuovi e umani spazi possibili.
Dal cuore di Palermo, dove è in mostra con “La Caduta di Fetonte” presso L’Ascensore, ci si allunga fino a Carini per trovare Giuseppe Buzzotta (Palermo, 1983), che abilmente sa sfumare il confine tra il mondo fisico e reale e quello simbolico e mnemonico in ogni sua opera. La sua pittura è una vera e propria archeologia del presente animata di corpi, reali e rappresentati, che interrompono il normale flusso quotidiano affermandosi come corpi che esistono nella loro capacità di porsi in relazione con l’esterno, di offrirsi agli sguardi degli altri, di rivelarsi. Buzzotta lascia emergerge che la dimensione biologica non stia semplicemente alla base o accanto alla dimensione socio-culturale suggerendo che sia invece proprio il biologico a rendere possibile la nostra condotta sociale e culturale, avvalorando l’importanza che l’occhio ha nel riconoscimento simultaneo della storia, quella che si dà per immagini, come fosse essa stessa un corpo rappresentato. Emerge così, in ogni tela, l’esperienza della storia attraverso un modello figurativo che ci dà la possibilità di scoprire e riconoscere le nostre impressioni all’interno di un’immagine unitaria.
Più del cielo di Palermo, che Goethe diceva “impossibile da dimenticare”, il loro fervore e loro, Antonella e Leonardo, Davide, Diego e Giuseppe, sono esplosi nei miei occhi e scorrono, scorrono a fior di pelle.
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