«Seminato nella Vergine, fermentato nella carne, impastato nella passione, cotto nel forno del sepolcro, donato ai fedeli come cibo celeste». Cosi Pietro Crisologo, vescovo di Ravenna del 400 d.C., definiva il miracolo delle messi che trasmutano in Messia, il nutrimento della terra in vivanda ultraterrena. È il mistero, poetico e sconcertante, della vita e della sua immortalità, alimentata da ciò che da sempre è considerato lavoro povero, tra la terra brulla e polverosa, o sudore umile, tra il ferro e il legno degli attrezzi, tra le selci bollenti e infuocate dei forni. E una rara e sottile eco di questa antica energia giunge a noi, dalle profondità concave del palazzo Peschici-Maresca, nel Borgo Vergini del Rione Sanità, tra i resti dell’antico Acquedotto Augusteo del Serino. Testimone, questo, di una tacita, silenziosa mostra, “Depositions”, dell’artista palestinese Jumana Manna, quarto intervento di “Underneath the Arches”, programma di arte contemporanea curato e diretto da Chiara Pirozzi e Alessandra Troncone, in collaborazione con Fondazione Morra.
Come sempre avviene in città antichissime come Napoli, scendendo poche scale si attraversano secoli di storia, di materia morta e dimenticata, eppure un tempo vivida e respirante alla luce del sole, su cui si poggiavano visioni e sensazioni, concetti e percezioni ormai perdute. Ci si addentra così in un ambiente denso, intessuto da solidi piloni, adornati da ghiere di mattoni in laterizio e sostenuti da sorprendenti corpi in tufo e opera cementizia. Uno scheletro che ha agito da architrave del palazzo con discrezione, di nascosto e disvelatosi solo pochi anni fa, a seguito di un crollo. E dai lavori di recupero è emersa tutta la sapienza degli antichi costruttori, che tra queste camere segrete sapevano maneggiare concetti astratti come vuoto e pieno, peso e sostegno, forza e leggerezza con la stessa consapevolezza della semplice sabbia, malta e gesso.
E in questo gioco di bilanciamenti e squilibri, l’artista e regista palestinese, formatasi presso la National Academy of Arts di Oslo, nella Carl Arts University di Los Angeles e residente oggi a Berlino, si propone con un’opera site specific delicata quanto possente, compassionevole quanto risoluta. E lo fa alla sua maniera, seguendo un filo rosso iniziato anni addietro quando, da giovanissima, decifrava e combatteva tutto ciò che era violenza statuale e indifferenza sociale, organizzate e interiorizzate, ottuse e laceranti. Riconfigurando per noi, nella sua immensa semplicità, piccole e delicate sculture di terracotta che rianimano una memoria visiva ed emozionale di antica fattura, legata a elementi come l’acqua, il grano, e ricongiungendoli idealmente a ciò che è sorgente e umidità, elementi preziosi attraverso cui la vita nasce e invigorisce.
Doni diffusi, poggiati con delicatezza, tra ripiani e piccole edicole, su pannelli di cartongesso irrisori nella loro friabilità e temporaneità ma in grado di sfidare la possanza dei pilastri dell’acquedotto, che nonostante i secoli, la polvere e le crepe, rimangono viscere, sistema circolatorio di un potere assoluto e spettrale, di un Imperium sbriciolatosi sotto il devastante urto della terra, ma di cui è impossibile disperderne memoriae.
E se lanciamo uno sguardo in fondo alla vecchia scala in muratura, accecata da un solaio posteriore ma ancora provvista di scivoli per le botti, veniamo trasportati sul marciapiede di una cittadina palestinese qualsiasi, Gaza, Nablus, Hebron, Ramallah. Con un gioco ottico, l’artista ci regala quella scena antica e misericordiosa del pane raffermo lasciato allo sconosciuto, al bisognoso che non ha volto né religione o identità. Una pratica antica a cavallo delle coste del Mare Nostrum, crocevia di civiltà e, forse, l’unica vera patria di cui nutrirsi ed essere orgogliosi. E che, nonostante tutto, rimane un immenso portale di trasmissione, di uomini e di saperi, di simbologie eucaristiche e di vita di comunità (il pane donato dalla dea Demetra nella Grecia antica, il pane azzimo della Pasqua Ebraica, il pane di orzo che Maometto consigliava agli ammalati) che celebrano il dono perché, da sempre, edotte del significato di privazione, torto e sottrazione.
E non è un caso che proprio qui, in questa zona dell’antica Neapolis votata alle sepolture con ipogei e catacombe, in questo incontro con una comunità generosa e gelosa dei propri luoghi come l’Associazione VerginiSanità (che si è duramente spesa per il recupero e la salvaguardia dei preziosi resti dell’Acquedotto del Serino) il lavoro di Manna sembra aver raggiunto un punto di svolta, di maturità.
Dopo una lunga gestazione, dopo anni in cui il racconto dell’artista si è concentrato sui significati di conservazione (le sculture antropomorfe ispirate ai Khabya, antichi refrigeratori usati per la salvaguardia delle sementi come del proprio patrimonio culturale), manipolazione (la storia, raccontata in Wild Relatives, della transumanza dei semi del Centro Internazionale di Ricerca Agricola da Aleppo in Libano a causa della guerra, sapientemente integrati da qualità provenienti dall’isola norvegese Svalbard per interessi commerciali e politici) e riappropriazione (in Foragers la silenziosa resistenza dei palestinesi al divieto di raccogliere lo za’atar e l’akkoub, gustose piante selvatiche, imposto dal governo israeliano come forma di sterilizzazione territoriale e culturale), è dunque giunta per l’artista una stagione di raccolta. Proprio perché il dono rappresenta il paradosso, il miracolo di uno squilibrio positivo, di un’unione indissolubile, di un ricevere da chi ne riceve il frutto, impreziosito dalla sua estraneità.
Ma in fondo a chi si rivolge Jumana Manna? Per chi viene questo pannicello lievitato ma freddo e pietrificato? Chi sono gli affamati? Chi è tornato o rischia di dover tornare a nascondersi sottoterra, nei tunnel, nelle gallerie, come topi in trappola, a riparo dalle minacce esteriori ma anche da angosce interiori ben più profonde? Alla fine dei gradoni, tra volte e testate di mattoni fini, tra pozzi e cisterne prosciugate, tra ritmo e sospensione, tra il visibile e l’invisibile, Jumana è colei che in fondo accoglie e ristora, senza distinzioni, senza pregiudizi, non senza dolore.
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