Paolo Gonzato (classe 1975) è un artista il cui lavoro è da sempre rivolto alla trasformazione e alla marginalità. Si occupa di dinamiche recessive e di sospensione, declinando la sua ricerca attraverso l’impiego di vari media. Lo abbiamo incontrato nel suo studio dopo aver visitato la sua ultima personale intitolata FIORI. La mostra è concepita come una raccolta di disegni a pastello su carte A5. I disegni, risultato di una selezione formale nel linguaggio di Gonzato, sono «riduzione ai minimi termini», ricerca di un segno primitivo. Nella mostra, strutturata intorno ad un impianto spaziale legato al wall painting OUT OF STOCK, sono presenti inoltre sette sculture ceramiche in forma di vaso della serie CHOPSTICK.
Cosa ricordi del clima culturale che si respirava negli anni ’90, i tuoi anni di formazione all’Accademia di Brera di Milano?
«Ricordo un ambiente italiano dominato dalla pittura commerciale, ma contemporaneamente un immaginario nuovo, freddo e concettuale che allora faticavo a capire e approfondire ma che mi sarebbe diventato presto familiare. Ricordo degli articoli di Flash Art su artisti come Betty Bee, Vanessa Beecroft – con la quale ho condiviso qualche mostra in Accademia – e ancora su Stefano Arienti e Liliana Moro».
Che tipo di immagini ti sono rimaste impresse?
«Tra molte potrei citare le fotografie banali e perturbanti di Wolfgang Tillmans. Negli anni successivi ho conosciuto molti dei protagonisti di quell’epoca e oggi possiedo dei loro lavori».
Quali input artistici ti hanno affascinato durante la prima decade del tuo lavoro?
«All’inizio degli anni 2000 guardavo agli artisti che oggi definirei “blockbuster”, cioè artisti massificati. La mia tesi di laurea all’Accademia si intitolava appunto SHOW, LO SPETTACOLO NELL’ARTE e trattava proprio di quel tipo di sovraesposizione mediatica. Successivamente invece ho subito il fascino dell’estetica di Memphis che mi appassionava fin dal liceo e del lavoro di Ettore Sottsass. Ma soprattutto l’idea di “kitsch” applicato all’arte e ai materiali. John Armleder fu un’epifania: il suo decorativismo di matrice concettuale unito agli studi che stavo facendo sull’arte analitica mi interessò moltissimo.
Come si è evoluta la tua pratica?
«Dopo i grandi ritratti di plastica cucita degli anni ’90 ho progressivamente raffreddato il mio segno aprendolo alla scultura e all’installazione. Le immagini figurative sono sparite e il materiale ha preso il sopravvento. L’abuso del figurativo mi crea assuefazione: troppo personale e poco condivisibile. I fogli di plastica, le buste e sacchi dell’immondizia sono diventati superfici da torturare con infinite bruciature di sigaretta. Ho “congelato” tutto il lavoro precedente nelle serie OUT OF STOCK che riassumeva molto di quel percorso dandomi la possibilità di usare quella “scrittura” come un “rotolamento” di senso continuo che si trasforma e si dilata attraverso i media e i materiali».
Parliamo del 2022, un anno di rilancio dopo lo iato del COVID: come è stato per te?
«Molto stimolante, ma in realtà lo erano stati anche gli anni della pandemia in cui ho presentato il mio lavoro in due mostre personali a Milano. Una incentrata sulla ceramica e intitolata PASTICHE da Officine Saffi e un’altra sul vetro, BARACCHE, la mia seconda personale da Camp Design con Beatrice Bianco. In questo 2022 appena trascorso, con la galleria Apalazzo ho esposto a Venezia alle Zattere durante la Biennale con un nuovo progetto scultoreo nei giardini di Palazzo Experimental intitolato LA CUCCAGNA».
Come si presentava la mostra?
«Grandi sculture outdoor di metallo verniciato in colori leziosi e costitute da ideali pali della cuccagna che hanno progressivamente perso di senso trasformandosi da benauguranti archetipi, provenienti da culture diffuse e lontane, in segni sterili urbani. Specie di antenne paraboliche viola, a volte divelte a volte fatiscenti, la cui deriva segnica conferiva loro nuovi significati, talora misteriosi e imperscrutabili».
Più recentemente?
«A novembre sempre con la galleria Apalazzo ho realizzato il progetto FIORI, qualcosa di altrettanto nuovo nel mio percorso, una serie di disegni a pastello, di piccolo formato. Nello stesso periodo alla Casa degli Artisti sempre a Milano ho partecipato alla mostra di chiusura della residenza cominciata lì in estate, curata da Milovan Farronato, Chiara Spagnol e Irene Sofia Comi. Ho esposto un grande sipario la cui costruzione coinvolgeva la comunità LGBT e simpatizzanti attraverso la richiesta di donazione di un metro quadro di stoffa rosa nelle cui differenze cromatiche si sarebbe composto il puzzle di un’opera tessile della serie OUT OF STOCK. Ad accompagnarlo una grande installazione che ha preso spunto da una mia riflessione sull’idea di deriva».
Quale è stato il punto di partenza di questa installazione?
«Autoprogettazione? di Enzo Mari del 1974. Da lì le sedute che ho realizzato si sono trasformate e smembrate in vari pezzi costruttivi, di diversi materiali, diventando un’alterità rispetto alla loro idea di partenza. All’ultimo piano dell’edificio era inoltre esposta un’urna in ceramica il cui impasto accoglieva oltre a del pigmento rosa, ceneri, residui e memorie dei mesi della residenza attraverso fiori secchi, sigarette, briciole di biscotti della fortuna cinese e quant’altro. Tutto raggruppato sotto un titolo mutuato da un quadro di Gustavo Rol, sensitivo torinese del ‘900: Tentativo di descrivere lo spirito di un vaso di rose».
Facciamo un passo indietro e torniamo al tema floreale: dal 24 di novembre alla metà di marzo 2023 è allestita la mostra Fiori presso lo Spazio Leonardo a Milano. È la prima volta che ti cimenti con il disegno?
«No, in realtà ho incominciato circa vent’anni fa, in occasione la mia prima personale alla galleria T293 che allora si trovava a Napoli. Presentai una serie di nudi maschili a grafite, ritratti per lo più dal vivo, si intitolava THE GLORY HOLE COLLECTION. Rappresentavano corpi e particolari anatomici che prevedevano un doppio. Quella specchiatura era enfatizzata in un display a “farfalla” attorno a un grande buco architettonico presente nella parete della galleria. In tutto cento pezzi su due pareti adiacenti, l’una lo specchio dell’altra. I disegni erano completati da cornici bianche realizzate su disegno da artigiani locali».
Perché ritieni rilevante esplorare il tema botanico floreale nella nostra società?
«In un’epoca di antropocene in cui in cui gli esseri umani hanno un impatto enorme su tutto l’ecosistema terrestre e in cui – se non erro – si estinguono circa duecento specie di piante al giorno il tema dei fiori è ancora un cliché, iconograficamente e socialmente associato al femminile».
Ci puoi raccontare un aneddoto in merito?
«Trattando di femminile in senso ampio trovo sintomatico che per anni il tema dei fiori emergesse anche nel test di valutazione della visita di leva militare*. Generazioni di ragazzi sono stati ossessionati da domande atte a individuare latenti disturbi della personalità. Ricordo, in prima persona, quesiti del tipo: “Ti piacciono i fori?” oppure “Vorresti fare il fiorista?”. Mi sono sempre chiesto se le risposte a questi due quesiti avessero a che fare con l’identità di genere o fossero tese a suscitare un tale dubbio a chi erano poste. In ogni caso trovo che su quei “fiori” e sui loro reconditi significati aleggi ancora un’aura di mistero».
Quali sono stati i tuoi punti di riferimento culturale ma anche pratico nella realizzazione di questi 41 disegni?
«I disegni sono per me ritratti dal vivo di fiori visti tra il 2021 e il 2022. Durante i viaggi in Italia e in Europa di quel periodo o ricevuti in regalo o trovati per strada, a volte cercati online e acquistati appositamente. Nella mia testa si sono accavallate immagini dei gigli di Wolfgang Tillmans all’interno di una bottiglia di plastica di San Pellegrino, o delle eleganti calle di Robert Mapplethorpe o ancora dei mazzi di fiori accennati di De Pisis. Oppure del fiore che vedo ora sulla parete qui di fronte: un disegno a penna che Jeff Koons mi regalò… la data dice il 18 giugno 2002. Tutto però è incominciato forse nei parchi botanici del lago Maggiore e della provincia lombarda che hanno costellato le gite della mia infanzia: Villa Taranto, l’Isola Bella, Villa Pallavicino…».
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
«Da luglio 2022 tengo un workshop all’interno del carcere dell’Ucciardone di Palermo curato dall’associazione Spazio Acrobazie. Un percorso fatto con quindici detenuti, personale penitenziario e educatori coordinati da Elisa Fulco e Antonio Leone che porterà alla realizzazione di un intervento permanente, un wall painting di 30 metri della serie OUT OF STOCK che riqualificherà uno dei giardini del carcere dove i detenuti possono incontrare le loro famiglie. Inoltre sto lavorando a una mostra online per la exibart digital gallery dal titolo Sipario a cura di Daniele Perra»».
Cosa è per te la libertà?
«Non essere vittima dei luoghi comuni ma strumentalizzarli a tuo favore».
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