Torna a Milano, dopo quasi 20 anni, una mostra dedicata a Paolo Scheggi. Ilaria Bignotti ha curato, insieme alla Associazione che porta il nome dell’artista, la mostra, intitolata Making Spaces, che resterà aperta presso la Cardi Gallery fino al 15 aprile 2023, con una selezione di 25 delle sue opere più iconiche dai primi anni Sessanta agli inizi dei Settanta. L’artista fiorentino, morto poco più che trentenne nel 1971, trovò a Milano numerose opportunità di collaborazione con artisti, critici, progettisti, produttori, come afferma la curatrice: <<qui Scheggi poté trovare un laboratorio cosmopolita e aperto a tutti i linguaggi che egli seppe, nell’arco di un incandescente decennio, sperimentare, travalicando ogni confine>>. A partire dall’incontro nel 1961 con la stilista Germana Marucelli, e a seguire i rapporti con Lucio Fontana, Bruno Munari, Germano Celant, Alessandro Mendini, Gillo Dorfles, solo per citarne alcuni.
Dopo l’esposizione di due sue opere nel 1962 a Roma alla Galleria Nazionale di Arte Moderna, grazie all’intervento di Palma Bucarelli, importante per la carriera di Scheggi fu la mostra a Bruxelles, presso la prestigiosa Gallery Smith, dove poté esporre nel 1963 i suoi lavori intitolati Intersuperfici, conquistando in breve fama internazionale. Opere di Scheggi oggi si trovano nei più importanti musei del mondo, da ultimo, lo scorso anno, un suo Inter-ena-cubo, di moduli smaltati rossi, è entrato a far parte della collezione permanente della Tate Modern di Londra. La mostra offre due spazi espositivi, uno nel grande salone all’ingresso dove si trovano sia le opere realizzate con moduli di cartone colorato e fustellato e plexiglas (Intersuperfici) e moduli di metallo smaltato monocromo (Inter-ena-cubi), oltre a due lavori realizzati per progetti di arredo e di urbanistica. Nella sala superiore, una bella sorpresa: la ricostruzione della versione originaria di Interfiore, un’opera immersiva, 68 anelli fluorescenti in legno e luce di Wood sospesi nel buio, esposta per la prima volta nel 1968, che chiede agli spettatori di esserne partecipi.
La parabola artistica di Paolo Scheggi è stata piuttosto breve ma molto produttiva. Ha usato i colori puri fin dall’inizio della sua attività, affascinato dalla monocromaticità che gli serve ad aiutare il fruitore a cogliere meglio aspetti spaziali e dimensionali dei suoi lavori. In seguito, sotto l’influsso di Fontana, opera con la sovrapposizione di tre tele con fori che invitano a guardare oltre la superficie, cogliendo nelle ombre e nei riflessi profondità visive insolite. Cosa c’è oltre la superficie, oltre l’apparenza? Crediamo che questa fosse la domanda prevalente che si poneva Paolo Scheggi. Cercava di rispondervi con le sue ricerche in filosofia metafisica, in poesia (amava T.S. Eliot) e soprattutto con le sue opere con le quali voleva spingere lo spettatore a guardare oltre, a «leggere tra le righe», a non accontentarsi di osservare in modo passivo ma impegnarsi a cercare personalmente spazi, vuoti, strutture che gli schemi geometrici adombrano in continuazione a seconda del variare del proprio punto di vista. L’obiettivo di Scheggi in fondo è uno solo: far partecipare lo spettatore all’opera. Coinvolgerlo. Per questo di lui si parla non solo come esponente dell’Arte Oggetto (o oggettiva) ma anche di Arte Programmata, Arte Cinetica.
Scheggi era consapevole dei livelli inesprimibili dell’esperienza umana e desideroso di trovare modi semplici ed emozionanti per portarli alla luce, sapendo bene peraltro che il movimento è l’unica chiave per apprezzare la profondità dello spazio fisico. Se si abbandona la contemplazione per l’azione, lo statico per il dinamico, ecco che si approda all’opera immersiva Interfiore «vera messa in scena dell’interazione scenica tra elementi mobili, luce e pubblico» come dice il critico Luca Massimo Barbero. Per forza di cose le opere di Scheggi rientrano nella definizione di astratte. Esse infatti non vogliono raccontare o darci una interpretazione della realtà, ma condurci verso qualcosa di invisibile che non si trova in superficie ma nel profondo delle nostre singole esperienze.
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