Paris+ par Art Basel è l’occasione per le gallerie di inaugurare nuove mostre. Il proposito è di attirare un pubblico diversificato, che visiti gli spazi attraenti delle gallerie dopo aver affrontato l’affollamento nella struttura effimera, speriamo, della fiera d’arte contemporanea.
In un Hôtel particulier del Marais, prospiciente la Place des Vosges, la galleria brasiliana Mendes Wood DM ha appena aperto la sua sede parigina. Gli artisti invitati sono distribuiti sui due piani dello spazio, notevole per la sua architettura di storico rilievo. Ispirata ad una frase di Paul Celan, la mostra inaugurale dal titolo I see no difference Between a Handshake and a Poem, riunisce così circa quaranta artisti emblematici come Paulo Nazareth, il fotografo Mauro Restiffe, Pol Taburet e un cortometraggio di Marguerite Duras. Sulle tre pareti dell’entrata si notano una sequenza fotografica di Davide Stuchi e due interventi. Digital di Katinka Bock associa in una sorta di collage due materiali, una piccola ceramica sovrapposta alla forma allungata di una mano, in legno di quercia. Su un altro muro è appeso un guanto di gomma nera, opera di Adrian Balseca.
Le opere disposte sui tre piani della galleria Continua rintracciano il percorso di Chen Zhen (1955-2000). Nel contesto storico attuale è di forte impatto la riflessione dell’artista cinese: «Le migrazioni genererano un popolo di “senzatetto culturali”. Il doppio esilio diventerà una condizione molto diffusa: senza vere radici, né vere appartenenze alla nuova cultura. Come posso ridare una dinamica alla mia cultura d’origine e costruire la mia appartenenza ad una nuova cultura, nel contesto della mondializzazione? Vivo in una ricontestualizzazione permanente?». Tuttavia questa riflessione genera nell’artista un concetto più ottimista che chiama con un neologismo transesperienza, espressione del dialogo permanente fra le culture e il processo creativo generato dalla mixità culturale, tra integrazione migratoria e sradicamento nomade, sempre più attuale nel XXI secolo. In Meditation chair (1996) l’associazione di una sedia con vasi da notte, solo apparentemente antichi, cinesi, irriconoscibili nel resto del mondo, è disposta in un sistema sonoro. Si capisce la destinazione all’ascolto che vuole farne l’artista nel trasformali in cuffie e alto-parlanti, ma non è percepibile la loro funzione d’origine. E’ dell’anno del suo decesso, Six Roots, Enfance|Garçon, Childhood|Boy. Sullo scafo di una barca rovesciata sono disseminati grovigli di figurine di plastica, predilette dai bambini di più generazioni, che rappresentano la guerra, tra le quali soldatini e veicoli blindati in miniatura.
La galleria Perrotin ha invitato quattro artisti dallo stile molto diverso. Al pianterreno il duo scandinavo Elmgreen & Dragset: le loro opere raccontano storie dei nostri tempi, immerse nella tecnologia ma rappresentate grazie a un mezzo tradizionale, la scultura a tutto tondo, messa a profitto dell’installazione. Il contesto è articolato come scena di vita in una sorta di coreografia di gruppi scultorei. L’esperienza è raramente diretta, tutto è riflesso come i bambini in bronzo laccato disposti all’interno di uno specchio circolare. L’identità dei personaggi è affidata alla loro gestualità, stereotipata e filtrata dai caschi della realtà virtuale al posto degli occhi. Gli oggetti presenti sono quelli della tecnologia, ma anche della mobilità quotidiana quando raffigura un incidente in Delivery (2023). Nella loro drammaticità tecnologica permane tuttavia il sentimento di umanità come imperativo della condizione contemporanea.
Con Orchid Island, Laurent Grasso offre un insieme di pitture e sculture in sintonia con un affascinante film girato di recente a Taiwan nel quale la natura spettacolare è percepita anche come riflesso dell’attualità inquietante. Esso immerge gli astanti in una successione di paesaggi sublimi, nella contemplazione avvolgente di una forma rinnovata della pittura di paesaggio. Qui è tropicale, fatto di luce diffusa, densità di fogliame, acqua riflettente, rocce ripide, su un fondale di colline che diventano montagne. Come in un sogno che puo’ trasformarsi in un incubo, la percezione ammirata della bellezza naturale viene contrastata dalla sovrapposizione di una figura geometrica minacciosa e mutevole, non identificabile come nella figurazione astratta: talvolta ombra spettrale, talvolta forma rettangolare essenziale ben definita. Sembra una rivisitazione dello Sturm und Drang.
Nella sede adiacente della gallerie sono esposti i quadri di Chen Ke, che prende spunto dalla fotografia.
Da Chantal Crousel, intrigano le sculture di Jean Luc Moulène, di stile e dimensioni molto diversi. Sono dello stesso anno, 2023, sculture dalle sembianze essenziali, piuttosto minimaliste, e quelle dalle forme ibride, attorno anche all’iconografia anatomica delle ossa, dalle variazioni multiple ed inedite. Si nota talvolta un tono umoristico come nel collage in bronzo di un osso di clavicola al quale è appesa una chiave in bronzo che apre la mostra, e la chiude con un’opera simile, in uno spazio adiacente. Al primo piano, negli ambienti particolarmente raffinati della società Brama, lo statunitense Wade Guyton ha riprodotto le pagine dei catologhi di una mostra berlinese di Manet (1832-1883) del 1928, sulle quali ha impresso le sue litografie.
Anche Karsten Greve ospita artisti in due spazi contigui, il cinese Qiu Shihua e l’americana Kathleen Jacobs. Una scelta che fa emergere un legame culturale sottile fra i due pittori attenti ambedue alla tradizione cinese. Nei quadri di Qiu Shihua il riferimento sembra essere la foschia che rarefà le forme. In Lumen, di Kathleen Jacobs, si capisce l’influenza, improntata al taoismo, della pratica calligrafica osservata durante il suo soggiorno pluriennuale in Cina dopo gli studi di grafica al Politecnico di Milano. Si nota un particolare senso della spazialità per l’assenza di orizzonte. L’artista interpreta questi impulsi per conferire alle opere un supplemento di originalità alla storia secolare dell’arte astratta, rinnovata nella generazione precedente anche da Mark Rothko di cui si puo’ vedere una bellissima mostra alla Fondazione Vuitton.
Nella centenaria galleria Jeanne Bucher Jaeger l’architetto Antoine Grumbach presenta dei disegni e un progetto, intitolato Les yeux du ciel, destinato ad essere realizzato nelle vicinanze dell’aeroporto di Roissy e fruibile dagli aeroplani. L’associazione fra architettura, qui in una versione di Land Art, e l’occhio ricorda il noto disegno della pianta del Teatro di Besançon eseguito alla fine del settecento dall’architetto illuminista Nicolas Ledoux.
Lungo il percorso, si entra nella Fondazione d’impresa Anticipation Lafayette, dove si è svolta la conferenza stampa di Paris+ Art Basel. Apre su tre piani ad una giovane artista inglese, molto promettente, che si dedica anche alla scrittura e alla musica. A prima vista Issy Wood sembrerebbe rivisitare in una versione attuale l’iperrealismo, con qualche possibile reminiscenza di Domenico Gnoli. Ma va ben oltre dipingendo, con padronanza tecnica magistrale, immagini sfocate. Rappresentano le istanze del vissuto materiale quotidiano, in riferimento alla sua storia personale. Ad ogni spazio è dedicato un tema. Si susseguono così, fra diverse iconografie, le pratiche odontoiatriche, frammenti di autoritratto, quadri verticali imponenti con il servizio di porcellana della nonna disteso in un grande primo piano senza punto di fuga né orizzonte.
Diversamente da quanto si ripeteva in un periodo recente, l’arte contemporanea non è in dissonanza con la storia. Ne è partecipe e la reinterpreta rinnovando il proprio linguaggio. Così che gli attori del mondo dell’arte colgono l’opportunità di questa riflessione sul presente con tutta la sua drammaticità. Corsi e ricorsi della storia? Non proprio. La coscienza degli accadimenti storici successivi cambia la fenomenologia, quindi l’essenza del presente. La storia non ha mai fine, come l’arte. L’arte, come la percezione della storia è sempre contemporanea.
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