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Passeggiando con Hamish Fulton, a Napoli
Arte contemporanea
“A walking artist”. Così ama definirsi Hamish Fulton (1946) l’artista britannico protagonista di una interessante personale alla fondazione Morra Greco, aperta fino al 30 giugno. Intitolata “Linking the invisible footsteps of 3 seven days walks on southern Italy, october 2019”, la mostra è stata concepita da Fulton come una piccola ma preziosa antologica, che si sviluppa nelle sale affrescate al piano nobile del palazzo Caracciolo di Avellino, nel cuore del centro storico di Napoli. Fin dal primo ambiente si rimane colpiti dal contrasto tra la ricchezza degli affreschi settecenteschi che ricoprono interamente le sale e la dimensione sintetica e concettuale del lavoro dell’artista, tradizionalmente associato alla corrente europea della Land Art.
Ma ancora prima di cominciare la visita della mostra Fulton ci tiene a chiarire che non ha nulla a che fare con Richard Long: “Lui vende pietre, io racconto passeggiate”. Invitato a Napoli nell’ottobre del 2019, prima della pandemia, di camminate ne ha fatte tre e le ha trasformate in altrettante opere, qui esposte insieme ad altri lavori che combinano parole ed immagini secondo i parametri tipici della sua ricerca. Ha scelto sentieri e strade antiche, è stato accolto dalla gente in maniera amichevole e generosa, è rimasto colpito dall’umanità delle persone: “Ricordo ancora il sapore ricco dei pomodori, non coltivati in serra”, afferma.
Dotato di una forte coscienza ecologica, Fulton è particolarmente interessato ai vulcani, ai quali ha dedicato alcune dei suoi percorsi settimanali -più di cinquanta- che ha realizzato tra il 1978 e il 2019. Per questo le ultime due sale -forse le più intense e poetiche- sono dedicate a loro. Nella prima un’unica opera fotografica di piccole dimensioni ricorda la salita sul monte Fuji in Giappone mentre nella seconda, illuminata solo parzialmente, un grande dipinto mostra la veduta del Vesuvio visto da Torre Bassano, in una notte di luna piena nell’ottobre del 2019. “Era un momento particolare – ricorda l’artista – dopo la delusione della Brexit decisi di accettare l’invito della fondazione e recarmi nell’Italia del Sud, e sono rimasto sorpreso dalla sua autenticità. Pochi mesi dopo è scoppiata la pandemia, e ora tutto è diverso e mi sembra molto lontano”. Così la mostra di Fulton suscita interessanti e profonde riflessioni sul rapporto dell’uomo con la natura, che stiamo distruggendo a ritmo serrato. “Noi apparteniamo alla terra, la terra non ci appartiene”, sostiene l’artista: non è un caso che la sua mostra ci ricordi la necessità di una relazione consapevole e rispettoso con l’ambiente, alla quale Fulton ha dedicato la sua ricerca da più di cinquant’anni.
Due parole anche sulla personale del giovane Daniele Milvio (1988), intitolata “Danno erariale” e curata da Gigiotto del Vecchio, che occupa il secondo e il terzo piano del palazzo, oltre al seminterrato. Milvio propone una serie di opere diverse, da grandi dipinti figurativi a sculture e installazioni caratterizzate da un senso di precarietà, con punte di sottile ironia. Il lavoro più interessante è composto da tre barchini in legno di dimensioni diverse appoggiate su dondoli, che emergono da cortine di nebbia, quasi ad evocare paesaggi romantici e visioni surreali.