Nei mesi che hanno preceduto l’apertura della 60. Esposizione Internazionale d’Arte, in molti si sono chiesti quale fosse la necessità di portare in Biennale un ampio numero di artisti esuli, indigeni, migranti, insomma, fuori dalle tradizionali vetrine del sistema dell’arte. Un dubbio con cui sembra essersi misurato lo stesso Adriano Pedrosa, autore dell’edizione dal poetico titolo Stranieri Ovunque (a sua volta mutuata da quello di un’opera del collettivo Claire Fontaine), che gli ha permesso di affrontare una tematica-ombrello in cui poter racchiudere una miriade di iniquità del mondo, viste da una prospettiva politica, socio-economica, religiosa, identitaria, di genere. Categorie diverse che rimandano tuttavia al cuore di un unico problema: la sopraffazione di una classe dominante su un’altra marginalizzata. La premessa, quindi, rimane necessaria e quanto mai attuale: lo dimostrano i volantini del collettivo ANGA – Art Not Genocide Alliance che hanno coperto come un tappeto rosso il primo giorno della preview lo spazio antistante il Padiglione USA, a fianco di quello di Israele che proprio recentemente è stato chiuso per volontà dell’artista e delle curatrici come segno di protesta nei confronti della violenza che si sta consumando in Medio Oriente. La Biennale resta dunque una cartina tornasole di ciò avviene a livello geopolitico, con una rinnovata attenzione, negli scorsi anni, per i temi del colonialismo e della sotto rappresentazione di tanti.
Quella che porta Pedrosa nella Laguna veneziana è tuttavia un’edizione elegante, composta, colta e fitta di un lavoro che lo ha visto impegnato in una serie di viaggi alla ricerca degli outsider di tutto il mondo. Non ci sono voci urlate, non si va mai fuori dalle righe. Il collettivo brasiliano Mahku accoglie i visitatori del Padiglione Centrale ai Giardini con un gioioso dipinto all-over di settecento metri quadri di visioni sacre mediate dal rituale dell’ayahuasca, dando un benvenuto esplosivo, delineando il preludio di una mostra tuttavia molto più sobria delle aspettative. Già dalla prima sala, infatti, si succedono spazi misurati e poetici, come l’opera Foreigners Everywhere di Claire Fontaine e la sala di Nil Yalter, Exile is a hard job, che racconta storie di comunità marginalizzate mettendo al centro un elemento arcaico come la tenda ricoperta da un feltro di beuysiana memoria. Alla violenza della repressione il curatore brasiliano risponde con garbo, invitando ad acuire lo sguardo per cercare nuove proposte e nuove correlazioni tra il nostro secolo e quello precedente. Un progetto che, ha dichiarato, era nei suoi pensieri già da anni, compreso il titolo, e che probabilmente costituisce la sublimazione della ricerca di una vita, intensificatasi in questi anni dal lavoro svolto al Museu de arte de São Paulo – MASP, di cui porta una traccia nelle Corderie dell’Arsenale con la sala che cita il geniale allestimento del secondo dopoguerra di Lina Bo Bardi, architetta del museo brasiliano e Leone d’oro speciale alla Memoria del 2021.
L’intenzione politica è chiara e onnipresente, quella di mettere sotto i riflettori scuole appartenenti al Sud Globale o a scuole di cui l’Occidente conosce poco o niente (da quella di Tunisi a quelle amazzoniche, passando per i tanti artisti autodidatti) come esplicitato nella stragrande maggioranza degli apparati didattici in cui, si specifica: “L’opera di questo artista è esposta per la prima volta alla Biennale Arte”. Lo statement diventa azione politica votata a una nuova rappresentazione. Un ribaltamento di prospettiva ben chiara nel Nucleo Storico, che fin dai Giardini presenta centinaia di opere astratte e di ritratti, in cui le linee che hanno definito il Modernismo vengono esaminate da una prospettiva differente: mentre all’inizio del Novecento Picasso inaugurava un nuovo stile a partire dalle maschere africane, gli stessi artisti indigeni usavano i propri riferimenti culturali come forma di auto rappresentazione ed emancipazione, dando vita a un rimando di sguardi a doppio senso.
Rispondendo all’interrogativo iniziale, quella di portare artisti sconosciuti ai più in Biennale risulta dunque un’operazione ben riuscita quando permette di avvicinarsi a nuove piacevoli scoperte, come la poetica sala dedicata alla coreana Kang Seung Lee, o quella della outsider Aloïse, che trascorse gran parte della vita in un ospedale psichiatrico e in Biennale è rappresentata dalla sua opera costituita da una lunga opera su carta dalla composizione spiazzante. E ancora i Mataaho Collective, che con Takapau (2022) trasformano i connotati della prima sala dell’Arsenale attraverso fasci di stuoia tessuta che crea un nuovo tetto che assomiglia a un rifugio, un riparo, elemento che nella cultura Maori è collegato al parto, alla nascita e alla connessione con gli dei. Opera-manifesto della Biennale di Pedrosa, sempre in Arsenale, è il polittico di grandi dimensioni realizzato da Frieda Toranzo Jaeger che raffigura un idilliaco giardino dell’Eden in cui la libertà queer regna indiscussa. Un’opera che, se dimostra la sua forza nel fronte, rivela il suo fascino nel retro, in cui sono visibili le cerniere dell’opera – sul modello di vero un polittico medievale – e vi sono ricamati dei riferimenti all’iconografia rappresentata nella scena.
È nel Padiglione Centrale, però, che troviamo una delle opere di maggiore impatto: si tratta di Personal Accounts di Gabrielle Goliath: ai lati di una sala buia, diversi video riprendono persone nere, trans, non binarie, intervistate in diverse città del mondo, da Johannesburg a Edimburgo, per raccontare le proprie esperienze di violenza patriarcale. I loro racconti sono espressi da tic visivi che ne rivelano il trauma: sospiri, esitazioni, deglutizioni, espressioni di dolore montati in loop che trasmettono una sensazione di dolore molto più forte di ogni possibile comunicazione verbale. La forza della Biennale di Pedrosa si manifesta soprattutto fuori dalle mura dei padiglioni: per questa edizione, il curatore ha voluto utilizzare lo spazio esterno di Giardini e Arsenale, accogliendo opere ambientali e sancendo l’importanza di una nuova anti-monumentalità. Il caso più riuscito è quello di Ivan Argote, Descanso (2024) nel prato davanti al Padiglione della Serbia: l’artista smembra il corpo della statua di Cristoforo Colombo adagiandolo al suolo e trasformandolo in una “rovina generatrice”, uno spazio in cui nuove forme vegetali prolificano. Un non-monumento all’insegna della vita e della trasformazione in cui il presupposto simbolico è decisivo, ovvero quello di sostituire la dimensione verticale con quella orizzontale.
Alla fine di una prima visita della 60. Esposizione Internazionale d’Arte, non si può fare a meno di notare come il curatore abbia deciso di declinare questa ampia tematica-ombrello (queer, outsider, migranti e così via) concentrandosi prevalentemente sulla questione indigena e decoloniale, riprendendo il filo delle ultime Biennali di Lesley Lokko (2023) e di Cecilia Alemani (2022), ricollocandole in una cornice istituzionale. Un focus che toglie forse spazio alla tematica propriamente queer, quella dedicata in modo più specifico all’identità di genere e all’LGBTQIA+. Un tema che emerge in opere come quelle di Dean Sameshima, Anonymous Homosexual e Anonymous Faggots che ricorrono sia in Arsenale che ai Giardini, nelle fotografie di Sabelo Mlangen o nei dipinti del giovane Louis Fratino accostati curiosamente nella stessa sala alle opere di De Pisis. Si poteva insistere forse di più sulle identità trans e non binarie che stanno emergendo sulla scena artistica internazionale proponendo nuovi linguaggi e ponendo nuovi interrogativi urgenti. Mettendo in luce la necessità di dar risalto alle storie cancellate dalla Storia, come si promette di fare il lavoro di Disobedience Archive curato da Marco Scotini. Uno dei pochi esempi in cui, oltre allo statement politico, emerge una rabbia e una voglia di riscatto. Al netto della sofisticatezza di questa mostra e della sua traiettoria necessaria, quindi, si poteva osare di più?
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