Le mostre si fanno principalmente per due ragioni. La prima è il pubblico e non (esclusivamente) gli addetti ai lavori. Senza il pubblico ogni mostra sarebbe una scatola chiusa. Come se la vetrina di una pasticceria ospitasse torte meravigliose, con corone di panna soffice e glasse a specchio, ma avesse i vetri neri. La seconda è per lasciare un segno, sempre che la mostra abbia la forza teorica, concettuale e i contenuti per farlo. Mi limito a qualche esempio parziale di mostre che hanno lasciato il segno, lungo tre secoli: la Prima mostra della Secessione viennese del 1898, curata da Josef Hoffmann, Joseph Olbrich e Gustav Klimt presso le Serre della Società Imperial-Regia di Orticoltura di Vienna; Les Immatériaux del 1985, curata da Jean-François Lyotard al Centre Pompidou di Parigi e Serial Classic del 2015, co-curata da Salvatore Settis e Anna Anguissola e allestita dallo studio OMA alla Fondazione Prada di Milano. La 60. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, Stranieri Ovunque, sarà, forse, ricordata per entrambe le ragioni.
Partiamo dall’impianto espositivo o se preferiamo di display o museografico. Questa biennale è allestita in maniera ineccepibile. Cura, linearità, chiaro apparato didascalico e fluidità del percorso la rendono facilmente percorribile, fruibile e “assorbibile”. Per la prima volta ho attraversato l’Arsenale riuscendo ad arrivare alla fine senza dispersione, spesso restando incantato. Le poche videoinstallazioni presenti hanno una collocazione ottimale e sono tutte di grande qualità e la sezione circolare dedicata al Disobedience Archive raccoglie molte opere filmiche e documentaristiche da fruire come se ci trovassimo in una videoteca. La situazione non cambia negli spazi dei Giardini, perfettamente bilanciati. Persino nelle sale più dense, ogni punto di vista ha potenzialità straordinarie. Affiancare un piccolo autoritratto di Frida Kahlo a un’opera di Diego Rivera non è un gesto casuale!
Per molti artisti, per lo più viventi, non è esposto un solo lavoro ma più opere. Questo permette di entrare più a fondo nella sua ricerca e nella sua poetica. La maggioranza delle artiste e degli artisti invitati sono sconosciuti in Europa, non hanno rappresentanza di gallerie private globali ed espongono in Laguna per la prima volta. Questo dimostra coraggio da parte del curatore Adriano Pedrosa. Anche solo per la mancanza del supporto economico proveniente da gallerie corporate o da fondazioni influenti. Nella struttura complessiva della mostra, si evince la sua lunga esperienza di direzione di un grande museo (Museu de arte de São Paulo – MASP in Brasile) con numerose mostre tematiche alle spalle come il ciclo dedicato a Storie diverse: Histories of Childhood (2016), Histories of Sexuality (2017), Afro Atlantic Histories (2018), Women’s Histories, Feminist Histories (2019), Histories of Dance (2020), Brazilian Histories (2022). La sua carriera curatoriale, anche all’interno di fiere commerciali internazionali (programmazione artistica alla fiera SP-Arte, São Paulo International Art Festival, dal 2011 al 2014, o la curatela di alcune sezioni di Frieze), non sembra aver inficiato le sue rigorose e oculate scelte di campo. Ho usato volutamente il termine “inficiare”, spesso impiegato in ambito giuridico, per ricordare la formazione del curatore che vanta una laurea in legge conseguita all’Universidade Estadual di Rio de Janeiro. Tutti i premi attribuiti in questa edizione — lontani da logiche corporative, di potere o orientati a nomi altisonanti — sembrano avergli dato ragione.
Questa biennale porta in primo piano il fare: che si tratti di pittura, collage, arazzi, tappeti, stendardi. Quel costruire certosino, minuzioso, di tradizioni tramandate, lontano dalle solite e ormai ridondanti derive neo-concettuali dell’oggetto molto spesso fine a se stesso. Questa biennale è un Manifesto sul valore della libertà: dei tanti popoli abusati, colonizzati, emarginati, delle storie familiari, dei diritti negati, di migrazioni, conflitti e confini, di attraversamenti, di inclusioni ed esclusioni, di resilienza. E di coloro che ancora oggi per il colore della pelle, per l’orientamento politico o sessuale, per la provenienza geografica o geopolitica vengono ignorati, messi da parte, e nei casi peggiori umiliati, picchiati, uccisi.
Nei giorni dell’affollatissima anteprima ho raccolto diverse critiche a caldo: «ci sono pochi video, c’è troppa pittura, troppe opere a tematica queer, più che opere cianfrusaglie, troppi artisti morti… si vuole normalizzare una parte di mondo che invece dovrebbe rimanere tale affinché conservi la sua autenticità». Ma il desiderio e l’obiettivo di ogni artista non è quello di farsi conoscere, di essere supportato da una galleria prestigiosa, di essere “accettato” dal sistema, di vivere (bene) grazie alle proprie opere e di lasciare il segno? Nell’ipotesi più desiderabile e ambiziosa di essere “musealizzato”?
Qualcuno ha detto che questa biennale è scollata dalla vera realtà, che fuori ci sono questioni più urgenti non toccate dalla mostra… e che lungo la Riva degli Schiavoni fino ai Giardini continuano a sostare Yacht imponenti. Non dovremmo forse mettere da parte l’ipocrisia o la chiacchiera da salotto radical chic e una volta per tutte constatare che, forse, senza le innegabili cospicue risorse dei proprietari di quelle barche ingombranti, oggi la Biennale Arte non esisterebbe? Tornando al pubblico, per il quale si fanno le mostre, vorrei chiudere con un aneddoto curioso. Uno degli autisti, navigati da tante edizioni, che scarrozzano gli addetti in lungo e largo, tra l’entrata dell’Arsenale fino al Giardino delle Vergini, sulla ghiaia bianca che col sole si fa accecante, ha detto … «ogni biennale d’arte si sentono le stesse cose: ci sono pochi video, ce ne sono troppi, c’è troppa pittura, ce n’è poca, troppe installazioni, troppo poche. Io preferisco la Biennale di Architettura. Perché sento dire cose più sensate». Mi fido della sua parola e la custodirò.
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