Il 26 settembre presso la Sala Squarzina del Teatro Argentina di Roma verrà presentato al pubblico il libro “Performing Media, un futuro remoto. Il percorso di Carlo Infante tra Memoria dell’Avanguardia e Transizione Digitale” a cura di Gaia Riposati e Massimo Di Leo, l’evento costituirà il cuore della rassegna Performing Media!, organizzata nell’ambito di Estate Romana 2022 e ormai arrivata alla terza edizione. Con Carlo Infante un dialogo intorno al progetto Performing Media.
Tra qualche giorno verrà presentato il libro Performing Media a cura di Gaia Riposati e Massimo Di Leo, nel quale gli autori ripercorrono il percorso da lei ha intrapreso. Come è nato questo progetto e quale è stato il suo approccio parlando in prima persona della sua ricerca?
«Per tanti anni mi sono occupato di critica teatrale, più come critico militante che come recensore, poi con l’avvento del virtuale, nei primi anni Novanta, mi sono confrontato con la rivoluzione digitale, la definizione precisa era quella di changemaker. Un ruolo che s’innesta su quello di progettista dell’innovazione culturale.
Il libro nasce da una proposta di Paolo Ruffini, curatore della collana “spaesamenti” per Editoria&Spettacolo, che ho presentato a Nuvola Project, ovvero Gaia Riposati e Massimo Di Leo, da tempo collaboratori di Urban Experience e quindi vicini al mio stile e alle strategie. L’approccio a questo progetto è stato ludico-conversazionale nello scandagliare le tracce di memoria che trovano sviluppo più che altro nel web, attraverso il “librido” che supporta il libro.
La dimensione del gioco è da sempre al centro della mia attività. Inizialmente non si usavano le parole “performing media” ma esisteva il concetto di “performare” ovvero giocare i media, come quando nel 1974 iniziai a fare agit-prop con il collettivo Majakovskij e i circoli La Comune. Allora questo processo si definiva controinformazione, utilizzando le strumentazioni audiovisive dei carousel della Kodak per fare multivisioni sul Golpe in Cile, sulla Resistenza a Roma, sulle Stragi di Stato. Giocare con l’artigianalità delle diapositive per non essere giocati dai telegiornali democristiani. Si agiva in prima persona, si volantinava per le strade o si tappezzavano le case occupate di tazebao. Ancora più oggi, proiettato (già da tre decenni) nel futuro digitale, sento costante, giorno per giorno, la necessità di rimettere in gioco la mia domanda di mondo. Così come allora».
Cosa si intende per Performing Media? Come può spiegare la necessità di introdurre nuovi mezzi e di conseguenza la rivoluzione apportata dai linguaggi audiovisivi nel mondo delle Arti?
«Il mio lavoro è fatto di parole, ne rilevo l’incidenza e i presagi di mutazione. Credo che sia più che opportuno inventarne di nuove, per dare nome a ciò che prima non c’era, a ciò che non accadeva. Il mondo cambia e noi di conseguenza, con le nostre parole e i nostri linguaggi che non possono e non devono accettare limiti. In tal senso penso sia importante tracciare, a partire da questa chiave d’analisi, una ricognizione non solo teorica ma progettuale, tesa a coniugare la mia ricerca per una ridefinizione dell’azione culturale, artistica e sociale nell’ambito digitale, il contesto dove si attua il nostro tempo futuro.
Su questa linea di tendenza si sono sviluppate attività in diverse direzioni, spesso confluite in corsi d’alta formazione: dalla sperimentazione dei linguaggi creativi ai nuovi format di comunicazione pubblica. Ambiti in cui si è aperto il dibattito sull’interazione tra video e scena nei primi anni Ottanta; sull’avvento del virtuale nei primi anni Novanta; sull’evoluzione dell’apprendimento nell’educazione on line nel 1996; sull’invenzione del blogging che anticipò il web 2.0 per cui il “comunicare con” iniziava a soppiantare il “comunicare a” dei mass media; sulle prime esperienze di scrittura mutante in ambiente digitale nei primi anni del 2000; sulla prima mappa interattiva creata in occasione delle Olimpiadi invernali di Torino2006; sulle esplorazioni urbane tradotte in geopodcast.
Esperienze emblematiche in cui i media devono essere “giocati”, inventati, resi “performanti” sulla base dei propri bisogni e desideri, per non essere noi, a nostra volta “giocati”, controllati, condizionati e indotti dagli automatismi del consumo di standard parametrati più sull’offerta tecnologica che sulla propria domanda evolutiva».
L’introduzione delle nuove tecnologie e dei media interattivi ha inevitabilmente alterato il ruolo dello spettatore; secondo lei è cambiato anche l’obiettivo dell’arte nei confronti della società contemporanea?
«Certo, non a caso l’Audience Engagement o meglio ciò che definisco l’”arte dello spettatore” è il focus dell’ultima giornata del progetto Performing Media che curo per l’Estate Roma, venerdì 30 settembre al Parco Archeologico dell’Appia Antica.
Si tratta, infatti, di riconoscere il valore intrinseco del consumo culturale, genericamente detto. Un cardine dei processi di cittadinanza educativa. In quei processi la percezione s’innerva con l’impegno, al contempo l’aggregazione sociale si evolve nella produzione d’immaginario collettivo.
Il fatto stesso che sia emersa in questi ultimi decenni, grazie allo sviluppo del web 2.0 (prima con i blog e poi con l’esplosione dei social network) la figura del prosumer, inteso come consumatore che produce interazione e senso, è il punto di partenza del progetto. In tal senso l’audience engagement (o development) è un concetto che nell’ambito dell’innovazione culturale delle arti e dello spettacolo è già diffuso, innescando un processo che necessita un passaggio evolutivo. Si tratta di andare oltre il dato quantitativo proprio del marketing per liberare un potenziale qualitativo dettato dal coinvolgimento e la partecipazione attiva, magari usando la blockchain».
Come possono i nuovi format di performing media interagire con gli archetipi culturali e, di fatto, con le forme più tradizionali e riconosciute dell’arte, come per esempio il teatro?
«Mi piace pensare che la domanda di mondo di cui parlavo prima abbia incalzato l’homo sapiens nella sua evoluzione, da quando si è erto in piedi, guardando più in alto e quindi più lontano, liberando le mani. Se solo pensiamo all’intelligenza aptica, quella che sottende l’uso sapiente del tocco (traduzione dal greco apto) e, per essere più precisi con un esempio, l’uso delle mani nell’esercizio di scheggiare una selce per farne utensili da taglio, mi viene di associarla all’evoluzione delle interfacce sempre più touch. Sì, l’interaction design dell’high tech assona con high touch. E’ da qui che si sviluppa la mia riflessione sull’associare l’idea di futuro remoto all’approccio del performing media. Il corpo dopotutto è il primo medium che abbiamo, da sempre, a disposizione. C’è da reinventare il modo per usarlo. La percezione è la nuova frontiera».
Il testo di Riposati e Di Leo parla delle esperienze che la hanno portata a definire un nuovo modello di arte, quali sono i momenti più significativi, quali i passaggi, che hanno potuto scardinare così radicalmente il gesto dell’artista?
«Un passaggio cardine per me è stato l’incontro con John Cage e tutto ciò che rappresentava con il movimento Fluxus, gli happening e quell’onda neodada influenzata da Duchamp. Sul suo treno sonoro organizzato dal Teatro Comunale di Bologna nel 1978 ho acquisito un imprinting che mi avrebbe permesso un paio di anni più tardi di fare radio, per la trasmissione del pomeriggio “Un Certo Discorso”, su RadioTre per un ciclo definito “Materiali di un viaggio nel Mezzogiorno”, una sorta di blog radiofonico. Molto probabilmente non sarebbe successo se non avessi vissuto quell’esperienza nel treno. E seguendo la pista dell’imprinting esperienziale rifletto su come quel “Grande Gioco” basato sul principio partecipativo dell’happening sia alla base della mia attenzione su ciò che definisco la “via ludico-partecipativa alla cittadinanza digitale” che si sta sviluppando ora nel web. Penso a quanto la condizione percettiva determini la qualità partecipativa a un happening, dove il valore risiede nella produzione creativa dei suoi utenti.
L’ascoltatore è il produttore del proprio ascolto, inteso sia come “azione” sia come “risultato dell’attenzione”, un valore attivo, creativo. Il fatto stesso che in quel treno l’ascolto fosse contemplato come un elemento costitutivo della regia multimediale dell’evento (secondo cui venivano messe “in onda”, attraverso un video a circuito chiuso anche le immagini dei vari scompartimenti-live act) rilanciava lo spirito di una straordinaria performance sinestetica, con intuizioni che di fatto anticipavano la multimedialità. Un aspetto che non addizionava medium a medium, ma moltiplicava il fattore percettivo, invitando a selezionare: a non soccombere al rumore di fondo delle ridondanze informative. Ecco il performing media nasce qui, da come selezioniamo la nostra attenzione».
Tra realtà virtuale, performance e installazioni, a partire dal 25 settembre, per chiudersi il 30, il progetto Performing Media presenterà un fitto palinsesto di eventi che avranno luogo in siti d’eccezione come il Parco Archeologico dell’Appia Antica, il Teatro Argentina, il Parco degli Acquedotti e l’Accademia Nazionale di Danza, in cui verranno discussi e presentati al pubblico i temi principali del processo performativo innescato dalla realtà virtuale.
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