Peter Flaccus, The Flat Earth – Maja Arte Contemporanea

di - 10 Marzo 2022

Peter Flaccus torna ad esporre negli spazi della galleria romana Maja Arte Contemporanea con una selezione di opere eseguite con l’antica tecnica dell’encausto. Puramente pittorica, quella di Flaccus è una iconografia visionaria di forme ritmiche sovrapposte, costruita per strati di rilievi multipli. Nel suo mondo convivono tensione e misura, rigore della geometria e dinamismo del colore come materia pulsante che magnificamente dà vita alla forma. Abbiamo avuto una lunga conversazione con lui sulla mostra, la ricerca e le sue radici nel Montana.

Peter Flaccus, Overlaps, 2020

The Flat Earth è un’alchemica grammatica visiva che mette a confronto opere eseguite dal 2000 ad oggi, all’interno di un vasto universo cromatico. Vuoi introdurci la tua personale?
Questa esposizione non è stata concepita per presentare esclusivamente i lavori recenti, ma ha avuto come punto di partenza il dipinto April Diptych (2020), a cui ho lavorato durante il primo confinamento causato dalla diffusione della pandemia da Covid-19. Il quadro è composto da un’ampia gamma di grigi. Daina Maja Titonel – direttrice della galleria Maja Arte Contemporanea – ha inserito la mostra a conclusione di una trilogia di esposizioni che prevedevano precise scelte cromatiche; durante le varie visite al mio studio, ha proposto di esporre sia lavori con tonalità molto scure che altri particolarmente chiari e luminosi, individuando inoltre opere eseguite circa 20 anni prima che avevano legami interessanti con il lavoro attuale. Questa mostra si anima nei contrasti: quadri di piccolo formato esposti accanto a opere di grandi dimensioni, opere molto scure accostate ad altre chiare, lavori recenti e altri risalenti all’inizio del 2000. Anche se in apparenza sembrano molto diversi gli uni dagli altri, sono altresì legati da motivi e tecniche che ho sviluppato negli anni. Tutti le opere degli ultimi decenni sono eseguite con la tecnica dell’encausto (cera colorata), un medium antico e organico, estremamente stabile, che permette di arrivare a dei risultati impossibili in ogni altra forma di pittura. Il titolo della mostra: “The Flat Earth” (la terra piatta), proviene dal titolo di uno dei lavori più recenti; sappiamo che la pittura è piatta, e non la terra.

Nelle opere in mostra, il cosmo appare invitando a un coinvolgimento, arriva a dimensioni più elevate nelle quali emergono forme ritmiche sovrapposte, tensione, dinamismo. Quale è per te il ruolo della poetica?                             Capisco il tuo riferimento agli aspetti formali delle opere, perché è proprio quello il contesto in cui lavoro. Non penso al “cosmo” e non cerco di rappresentare niente di specifico della natura. In ogni campo artistico, la “poetica” comporta precisione tecnica e competenza sui mezzi a disposizione. Richiede concisione, reticenza, assenza di retorica. La “poetica” fa anche riferimento ad una struttura con componenti che insieme formano un tutto organico, ma che comunque non ha un significato singolo, univoco e valido per ogni lettore, ascoltatore o spettatore. Questo è per me il senso della poetica in pittura. Non riguarda vaghi sentimenti estetici. Le mie decisioni sono specifiche e intenzionali, ma anche istintive, spontanee e probabilmente inconsce. Mi piace dare vita a meccanismi che creano forme casualmente, senza conoscerne in anticipo il risultato preciso. Non inserisco significati in un quadro; i significati si formano in seguito, nella mente dello spettatore. Come pittore, proprio come fa lo spettatore, aspetto di vedere se il quadro mi dà una nuova esperienza, e se lo fa, allora è ‘vivo’ e si regge da solo. Non si va a cercare un commento politico o sociale nei miei lavori. La mia posizione è anti-concettuale e anti-digitale, perché la mia pittura è profondamente materiale e serve a offrire un’esperienza visiva nel mondo reale (e questo infatti rende la loro riproduzione fotografica sempre insoddisfacente).

Peter Flaccus, April Ice, 2021

Il tuo procedimento creativo è l’esito di una ricerca sperimentale che parte dal periodo trascorso a New York, nel quale hai sviluppato una tecnica gestuale multi cromatica, caratterizzata da un’armonia tra materia, tecnica e immagine. New York, e Roma, come si fondono queste due città nella tua pratica? Quanto le tue radici si sono fuse nella città di Roma?                                                                                                                       Ho trascorso venti anni importanti a New York finché la mia vita ha avuto una profonda svolta nei primi anni Novanta, quando mi sono trasferito a Roma. E naturalmente anche il mio lavoro ha subito una grande trasformazione. Prima avevo lavorato con l’astrazione, gestuale e su grande scala, usando la pittura a olio. Se mi guardo indietro, vedo che le mie immagini dipendevano molto – troppo – da un modello paesaggistico che creava opposizioni tra alto e basso, terra e cielo, densità e atmosfera, con l’uso di una tavolozza di colori derivati dalla natura. Inoltre la pittura a olio è così facile e veloce da crearmi dei seri problemi nel decidere se e quando un quadro improvvisato era finito. Poco dopo il mio trasferimento a Roma ho cominciato a sperimentare la tecnica dell’encausto. Ho capito subito che questa tecnica piuttosto scomoda aveva però il vantaggio paradossale di rallentarmi e di forzarmi ad avere le idee chiare. Ho velocemente inventato nuovi metodi, nuove forme di spazio, nuove forme astratte, e una tavolozza semplificata con colori per me nuovi. La cera rimaneva fortemente fisica e tattile, mentre mi permetteva di creare effetti sia di trasparenza che di opacità. Con la cera potevo costruire aree in rilievo tridimensionale ed incidere in superficie delle linee sottili riempiendo i solchi con colori contrastanti. Lavoravo non solo aggiungendo, ma anche sottraendo il materiale morbido. Le superfici restavano piatte senza mancare di profondità, mentre i vari strati contenevano delle forme che si rivelavano mentre la cera superflua veniva grattata via a mo’ di spazzola con un risultato simile alle venature che si rivelano in una lastra di marmo. Può succedere che quando due colori di cera liquida si incontrano e poi si solidificano, lasciano delle tracce e l’illusione di essere sempre in movimento. Non saprei fino a che punto la mia vita a Roma e l’arte italiana abbiano influenzato il mio lavoro artistico, ma è stato qui che ho trovato un orientamento che non credo avrei trovato a New York. La mia pittura resta, sin da quando ero studente, astratta. Nel mio lavoro sono sempre alla ricerca di strutture dinamiche, integre e non scomponibili. Come rocce, o alberi. Forse le mie radici artistiche vanno cercate, ancora prima di pensare alla parentesi newyorchese, nella mia felice gioventù vissuta nelle montagne rocciose del Montana.

@https://twitter.com/camillaboemio

Scrittrice d'arte, curatrice e teorica la cui pratica indaga l'estetica contemporanea; nel 2013 è stata curatrice associata di Portable Nation, il padiglione delle Maldive alla 55.° Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia, dal titolo Il Palazzo Enciclopedico; nel 2016 è stata curatrice di Diminished Capacity, il primo padiglione della Nigeria alla XV Mostra Internazionale di Architettura, con il titolo Reporting from the Front; nello stesso anno ha partecipato a The Social (4th International Association for Visual Culture Biennial Conference) alla Boston University. Nel 2017, ha curato Delivering Obsolescence: Art Bank, Data Bank, Food Bank, un Progetto Speciale della 5th Odessa Biennale of Contemporary Art. E’ membro della AICA (International Association of Arts Critics). Boemio ha scritto e curato libri; ha contribuito con saggi e recensioni a varie pubblicazioni internazionali, scrive regolarmente per le riviste specializzate, e i siti web; ha tenuto parte a simposi, dibattiti e conferenze in musei e festival internazionali.

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