Nel cuore barocco di Lecce, dal 2019 è attivo Progetto, uno spazio per l’arte contemporanea, fondato e diretto dall’artista statunitense e curatrice indipendente Jamie Sneider. Lo spazio accoglie artisti internazionali per sviluppare progetti di residenza ed espositivi, con l’intento di stabilire un dialogo aperto con il territorio, misurandosi con la sua storia. Collocato all’interno di un antico palazzo del centro storico del capoluogo salentino, si configura, infatti, luogo fertile di sperimentazione artistica e nuove processi metodologici.
I progetti espositivi prendono avvio nel 2019 con fortaleza di ektor garcia, vedendo poi il succedersi di personalità internazionali come Nina Canell, Robin Watkins e K. Verlag, Michael Dean, Dora Budor con Michèle Graf e Selina Grüter, Niloufar Emamifar, Noah Barker e Ser Serpas, Bri Williams, Lydia Ourahmane, K.R.M. Mooney, Aria Dean.
Alla programmazione di mostre dal carattere internazionale, Sneider, negli anni, ha affiancato altri percorsi ed eventi connessi all’apertura della biblioteca, inaugurata con il cortometraggio di Noah Barker e Wyatt Niehaus, Virus of Participation. Occasione che per gli artisti invitati, ha significato poter ripensare al proprio progetto in una nuova formula: attraverso l’uso di materiale discorsivo, è stata messa in risalto la nuova biblioteca, sia architettonicamente, nella planimetria, che come luogo ospitante il loro lavoro. Una sala lettura, lo spazio costruito intorno a un prezioso archivio, dedicato alle risorse sull’arte contemporanea e al programma espositivo, declinato in simposi di letture condivise, film screening e performance, programmi collaterali alle mostre in corso. Attualmente, sono oltre 200 le pubblicazioni che costituiscono la biblioteca, in forma di testi e pubblicazioni, opuscoli, comunicati stampa, disponibili in più lingue, evidenziando un’attitudine alla ricerca, in continua evoluzione.
Mettendo in campo tutte le pratiche artistiche e di studio, nel segno di una restituzione condivisa con un pubblico, Progetto, dallo scorso luglio, ha iniziato a organizzare anche dei veri simposi, come quello con Amalie Svarre Nielsen, una chef e ricercatrice culturale, che fonda la sua ricerca sulle intersezioni esistenti tra cibo, agricoltura e politica.
Fino al 31 dicembre 2024, ospita nei suoi spazi candidate screening methods, di SoiL Thornton, lavoro che esplora la complessità di tematiche relative a questioni razziali, alla violenza psicologica e sessuale. E lo fa attraverso una narrazione di ballardiana memoria, formalizzata in layout con player pronti all’uso.
Un’installazione di 24 cornici, attinte all’archivio di Netflix, compone la prima opera, 186,282 miles per second enabling 24 frames per second revokes, OR, Digital Rights Management (DRM) mirroring a rapid eye movement (REM) frame. In ognuna di queste stampe, figura la schermata di un film o di un documentario disponibile sulla piattaforma, nella versione statunitense e solo alcuni in quella italiana. Privi di immagini, gli schermi riportano solo alcuni elementi ricorrenti: il logo, riconoscibile e posizionato in alto a sinistra insieme al titolo del contenuto, una timeline del video in basso, che si sovrappone ai sottotitoli in inglese, presenti solo in alcuni dei frame.
Elemento visivo ricorrente a tutte e 24 è il misuratore della brillantezza – brigthness, segnalato dall’ icona raffigurante il sole, ma regolata in misura sempre diversa. Uniforme e comune a tutte le cornici, lo sfondo nero che, nel suo reiterarsi, crea una narrazione omogenea e sposta l’attenzione, poco dopo e in maniera suggestiva, sugli unici tre elementi a disposizione del campo visivo. Un archivio che modula la diversità dei contenuti, esclusivamente attraverso il titolo e i sottotitoli, unici tasselli utili a orientarsi, per discernere i frame tra loro.
La successione dei film e dei documentari scelti diventa, così, un marcatore volutamente casuale, di una costruzione narrativa con alcuni elementi topici. La dicotomia tra sfondo nero e il rapporto con la “brillantezza” della risoluzione dello schermo, è cristallizzata al momento della sua regolazione. I contenuti, presumibilmente variano di paese in paese.
Quali le differenti tipologie di percezione che il media genera nel suo contesto culturale? Spettatori e protagonisti, gli utenti, con la sola espressione delle proprie preferenze, profilano intere categorie di video. Tuttavia, nell’inconsapevolezza di uno scrolling compulsivo, generano un palinsesto sempre nuovo, tra titoli che in comune hanno il genere in cui sono classificati, thriller a sfondo psicologico.
Chromosomal discrepancy bridge è la seconda opera, realizzata con una grande pellicola fotocromatica di transizione UV, che avvolge una struttura in legno sostenuta in sospensione, da una parte all’altra della sala. L’intervento, oltre a schermare, seppur in modo leggibile, alcune delle cornici apposte sul muro retrostante, taglia simbolicamente lo spazio. Il suo scheletro compone il codice “XXXY”, una combinazione che richiama i cromosomi sessuali maschili e femminili (XX e XY), i due generi biologici. Avvolta da una pellicola speciale, simile a quella utilizzata nelle vetrofanie o sui caschi da moto, subisce la luce e la sua rifrazione, elementi che acquisiscono ruoli determinanti. Quanto più viene illuminata dalla luce delle finestre, tanto più il filtro la oscura, rendendo difficile la lettura del codice “XXXY” di cui è composta la struttura lignea.
Se l’utilizzo di elementi del quotidiano, come Netflix, colgono una forma di coscienza collettiva del reale, rispetto a questioni affioranti dal consumo di contenuti mediatici, come la violenza, dinamiche legate a questioni di genere, razza e religione, così la luce e la pellicola sul vetro, superficie schermante quanto quella dei monitor, riportano la vulnerabilità insita in queste stesse istanze. Le percezioni che una narrazione culturale mainstream, tra le più usate, può suscitare nell’era da “tecnosapiens”, come l’ha definita il giornalista e scrittore Andrea Signorelli nel suo omonimo libro, si rivelano mutevoli e vulnerabili, condizionate da fattori casuali. Allontanandoci, sempre più, dallo status di utenti, diveniamo consumatori diretti di quelle stesse narrazioni che dovrebbero rappresentarci. L’iperrealtà ha lasciato lo spazio al metaverso.
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