-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Nel discutere il lavoro di Olafur Eliasson nel mio recente articolo sulla sua mostra alla Tate Modern, descrivo le sue opere come “monumentali” e “effimere”.
Continuo a riflettere su queste particolari qualità e mi chiedo se non siano relazionate ad una nuova tendenza nella scena dell’arte vista qui a Londra come del resto anche internazionalmente, in cui la monumentalità di un’opera, monumentali, intesa tale in termini di dimensioni e di pubblico interesse, viene concepita in un modo nuovo. Il rinnovato interesse per la performance nei contesti museali, sempre più parte integrale dei programmi curatoriali qui a Londra, riflette in molti aspetti un movimento verso l’idea di arte come esperienza, piuttosto che arte come oggetto fisico (tendenza di cui parlo nel mio sguardo alla mostra immersiva Beyond The Road per la Saatchi Gallery https://www.exibart.com/giro-del-mondo/full-immersion-da-saatchi-london/ ). Mi domando se però l’urgenza del messaggio ambientale e le implicazioni economiche e sociali non stiano anche queste avendo un impatto su come pensiamo alla permanenza di un lavoro.
Fino a quando riusciremo a trovare nuovi posti per esporre o tenere in archivio opere di arte, specialmente quelle su larga scala? Se gli spazi in contesti metropolitani come Londra si fanno sempre più costosi, a che punto l’artista (non parlo di quelli super-quotati, è logico, ma delle migliaia di altri che vivono e basano il loro lavoro in città come questa) deve necessariamente considerare nuovi modi di fare arte, che non si basino sulla produzione di “stuff”, letteralmente di cose che occupano spazio e magari sono il prodotto di materiali non ecologici. Il continuo sviluppo dell’arte digitale può anche questo essere considerato in quest’ottica, dove l’opera diventa virtuale non soltanto per interesse sperimentale ma anche per necessità logistica.
L’idea delle opere d’arte contemporanea di dimensioni colossali e di carattere permanente porterà sempre più al chiedersi di cosa siano state fatte, e se si meritino la propria grandezza non più solo in termini culturali (sono importanti abbastanza da meritarsi la loro monumentalità?), ma soprattutto ambientali e pratici (quanto spazio occupano, cosa se ne farà dopo il possibile, o addirittura inevitabile smaltimento, qual è stato il loro “carbon footprint”?)
Allora, in questo contesto, ci si può immaginare che lavori artistici temporanei, basati su esperienze effimere, diventino sempre più all’ordine del giorno. L‘arte pubblica sta cambiando: esperienza più che permanenza.
Jacek Ludwig Scarso e’ Reader in Art and Performance presso la Sir John Cass School of Art, Architecture and Design, London Met