Non è difficile raggiungere la cittadina di Aarau, capitale della regione dell’Argovia: si trova solo a mezz’ora di treno da Zurigo.
L’ambizioso museo dove è collocata la mostra è l’Aargauer Kunsthaus, un edificio costruito nel 1959 e ampliato nel 2003 dal prestigioso studio di architettura Herzog & Meuron in collaborazione con l’artista Rémy Zaugg. Oltre alla mostra, nei suoi 3000 metriquadrati, ospita la più bella e completa collezione pubblica di arte svizzera dal XVIII secolo ai giorni nostri.
La mostra, curata da Madeleine Schuppli e Yasmin Afschar, include 36 artisti provenienti da 12 Paesi e prende in considerazione le diverse declinazioni con cui gli artisti interpretano la danza dei ruoli che il tema della maschera porta con sé.
L’utilizzo più appassionante e intrigante della maschera si ha con l’uso performativo che ne fanno alcuni degli artisti della mostra: in primis i noti travestimenti di Gillian Wearing che compone le fotografie di Family Album nel 2003 con i membri della sua famiglia. L’artista usa una tecnica a trompe-l’oeil con una maschera simil-pelle, che inganna anche l’osservatore più scaltro. Dal 2008 inizia una nuova serie intitolata Spiritual Family impersonando Diane Arbus, Robert Mapplethorpe e Claude Cahun; in quest’ultimo caso varia la fotografia originale mettendo in mano a Claude una maschera con il volto di se stessa, svelando così la logica che presiede alla sua immedesimazione. Anche Simon Starling si rifà all’idea del teatro: quello No della cultura giapponese e fa scolpire in legno ad un fabbricatore giapponese una serie di maschere tra cui quella di James Bond, mescolando tradizione orientale e scenari della Guerra Fredda, nel suo Project for a Masquerade (Hiroshima) (2010-11). Vi è nel lavoro, il film e la presentazione delle sculture, una mise-en-âbime del concetto di doppio: culturale e storico innanzittutto. Le maschere di cartapesta volute dall’indiana Gauri Gill derivano da un invito fatto dall’artista nel 2014 agli artisti Adivasi della tribù di Konaka di recitare con le maschere la vita di tutti i giorni. La popolazione ha voluto tuttavia inserire anche animali e uccelli, rifacendosi ai miti tribali collegati alla religione Hindù. Ne sono scaturite identità ibride che da una parte si rifanno alla tradizione dall’altra si collegano alla postmodernità tecnologica come la maschera-computer. Cameron Jamie prende in prestito per la sua trilogia Kranky Klaus del 2002-2003 i spaventosi personaggi dei Krampus provenienti dalla valle Bad Gastein di Salisburgo in Austria. Queste figure corrono in gruppo nel villaggio e puniscono i bambini cattivi, lasciando a Santa Klaus quelli buoni. Una vera e propria performance è il concerto dei musicisti con il passamontagna inscenato da Sislej Xhafa e intitolato Again and Again, un progetto che l’artista porta in giro per il mondo dal 2000. L’aggressività subdola della scena sembra riferirsi alle norme sociali che vengono insufflate con apparentemente melodiosa dolcezza.
L’angolano Edson Chagas si traveste con buste della spesa rovesciate sulla sua testa e sembra preso in ostaggio dalle pubblicità, icone, oggetti, marchi dell’Occidente stampati sulle buste. Sembra un controcanto rispetto all’opera di Xhafa. Fa da trait-d’union l’opera della brasiliana Laura Lima, infatti se da una parte le sue maschere-paesaggio sono tele da indossare e mostrano i condizionamenti dello sguardo, dall’altro le sue rigide Máscaras Lousas (2010), che lo spettatore può dipingere con il gesso, ricordano l’arte concreta brasiliana. Poi ci sono delle maschere immagine: dai collage di John Stezaker dove delle cartoline nascondono il viso di attori hollywoodiani alle maschere fatte di lamelle prive di orifizi con solo il naso dipinto d’oro di Sabian Baumann alle inquietanti facce di Mélodie Musset tutte completamente ricoperte di sassi. L’installazione di Mike Nelson ha un’alta valenza iconica: un casco giallo i cui orifizi simulano un teschio sostenuto da un fragile bastoncino. L’artista mette insieme in modo fulminante l’originaria idea di maschera con quella di persona e il vuoto assoluto che apre l’immagine con la morte. Aneta Grzeszykowska e Amanda Ross-Ho svelano in chiave perturbante l’uso cosmetico della maschera. Una declinazione che si trova anche nelle maschere pelle o nelle maschere apparecchiature di tortura dei quadri rispettivamente di Cecilia Edefalk e di Markus Schinnwald. Un uso pop e ironico della maschera infine è rappresentato dal grande collage con personaggi che al posto del viso hanno gli emoticon di Olaf Breuning.
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