Quando arte, scienza e tecnologia si incontrano: intervista a Giuliana Cunéaz

di - 8 Marzo 2022

Il percorso espositivo di “C’è tanto spazio laggiù in fondo” firmato da Giuliana Cunéaz è visitabile sino al prossimo 2 aprile. Ideato appositamente per MEET di Milano, questo progetto esplora le possibilità creative che emergono dall’intersezione tra arte, scienza e tecnologia. Per conoscere meglio la donna e l’artista dietro questa ricerca, abbiamo intervistato a tutto tondo Giuliana Cunéaz.

3) Matter waves unseen, 2012 (particolare) wunderkammer con animazione 3D

Come definiresti Giuliana Cunéaz?

«Un’artista difficile da catalogare. Amo la sperimentazione e la ricerca e perseguo con grande libertà le strade che più desidero esplorare. Sono di indole piuttosto solitaria e so camminare anche controvento. Sono sempre stata molto determinata nella realizzazione dei miei progetti artistici. Le mie opere hanno la necessità di esistere in tutta la loro pienezza… devono essere vive, voglio sentirle respirare. Sono un’artista visionaria che non ha mai rinunciato all’aspetto poetico ed emozionale dell’opera».

Dove sei nata e dove vivi?

«Sono nata ad Aosta dove sono cresciuta. Durante gli studi all’Accademia Belle Arti sono vissuta a Torino e ora da 2002 abito nei pressi di Milano insieme a mio marito Alberto Fiz».

Quando e come è nato il tuo interesse per l’arte?

«Ho sempre amato molto disegnare, ma l’interesse vero e proprio si è manifestato durante la primissima adolescenza, intorno ai 12-13 anni. La mia famiglia non era interessata all’arte, per cui non avevo grandi opportunità di conoscere quel mondo e mi dovevo accontentare di piccoli spunti che su di me ebbero un’importante influsso. Uno di questi è stata l’immagine su una cartolina ricevuta da mio fratello del dipinto Ettore e Andromaca del 1917 di Giorgio de Chirico. Fu subito un grande amore, la misi nel diario e la conservai per anni. Un altro spunto fu il dipinto di Vincent van Gogh Campo di grano con volo di corvi stampato sulla copertina di un disco, anch’esso di mio fratello. Nel medesimo periodo iniziai a realizzare strani disegni in bianco e nero. Erano anni per me molto difficili e, in seguito alla morte di due miei compagni di scuola, soffrivo di terribili crisi di panico. Disegnare mi faceva sentire meglio, mi aiutava a guarire. Iniziai così e non smisi più».

Senza titolo I (Neither Snow nor Meteor Showers) 2010, digital painting

Qual è stato l’incontro più significativo per la tua formazione?

«Ce ne sono stati diversi. Sicuramente gli incontri fatti durante gli studi in Accademia furono importanti, penso a Carol Rama o a Giuseppe Penone che conobbi in occasione della mia tesi sull’Arte povera. O incontri avvenuti più tardi, come quello con Janus che nel 1990 mi consentì di realizzare la mia prima personale importante Il Silenzio delle Fate, o quello con Gillo Dorfles che apprezzò molto la mia ricerca e nel 1993 scrisse un importante testo sulla mia mostra In Corporea Mente mettendomi in relazione con Mona Hatoum».

C’è stato un accadimento o un incontro così intenso da farti cambiare il modo di guardare le cose?

«Sì, nel 1991 l’incontro con Rosanna Albertini che mi invitò a partecipare al Festival di Videoformes. Attraverso quell’esperienza e la conoscenza di artisti stranieri presenti alla manifestazione, scoprii la videoarte, un’esperienza importante a cui, tuttavia, non ho mai voluto aderire. Il video rappresentava un mezzo in più a mia disposizione e diventava uno strumento da integrare alle altre tecniche quali le installazioni o la scultura. Poi, nel 2003, c’è stato l’incontro determinante con le teorie quantistiche del fisico Werner Karl  Heisenberg e l’approccio all’animazione 3D. In tal modo è nato il connubio tra scienza e tecnologia che caratterizza ancora oggi il mio lavoro».

Crystals and Trees (Neither Snow nor Meteor Showers) 2010, digital drawing

C’è una mostra (non tua) che ricordi con particolare intensità?

«La Biennale di Venezia del 1990, dove rimasi particolarmente colpita dalla presenza di Gino de Dominicis e di Anish Kapoor. Rimanendo alla Biennale veneziana nel 1997 ho incontrato l’opera di Pipilotti Rist e nel 2003 Michal Rovner. Ricordo, inoltre, con particolare interesse una mostra vista a Dijon nel 1992 di Jean-Francois Guiton e la rassegna All in the Present Must Be Transformed con Matthew Barney e Joseph Beuys al Guggenheim di Venezia nel 2007. In tempi più recenti, mi ha molto colpito il lavoro di Roberto Cuoghi alla Biennale del 2013».

Quali sono gli artisti e le opere che più ti hanno influenzato?

«Come già detto Giorgio de Chirico, Max Ernst, Gino de Dominicis, Giuseppe Penone e tutta l’Arte povera. Aggiungerei Bill Viola».

Dall’opera filmica I Cercatori di Luce 2021 (Danzatori di Kataklò)

Qual è la tua giornata tipo?

«Attualmente piuttosto metodica. Inizio a lavorare intorno alle 9:30-10:00 e dopo una breve pausa pranzo, se non ho scadenze, riprendo fino alle 18:00-19:00. Questo talvolta vale anche per il sabato e la domenica. A volte, esco un’oretta a passeggiare».

C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?

«L’imprevisto appare inevitabile e a volte, proprio grazie a esso, si scoprono cose nuove. Sebbene nel mio lavoro tutto nasca da un progetto piuttosto dettagliato, quando l’imprevisto mi offre un risultato interessante lo accolgo volentieri. È accaduto, per esempio, in occasione di un video che ho presentato lo scorso anno al museo Pushkin basato sulla presenza di un’ape vasaia che aveva lasciato un oggetto nella libreria di casa. In ogni modo, non utilizzo software generativi in quanto li trovi troppo meccanici e privi di emozione. Fondamentalmente, mi piace iniziare con un’idea per poi lavorare a 360 gradi alla sua realizzazione e a tutti i suoi dettagli».

Hai mai paura di fare quello che fai?

«Sorrido a questa domanda perché è interessante. Sì, a volte sì, svegliandomi la notte e pensando alla follia del progetto a cui sto lavorando e alla paura di non ottenere il risultato sperato. Questo è successo alcune volte quando mi sono imbarcata in imprese per me titaniche senza sapere con esattezza dove sarei andata a finire…».

Hai mai avuto dei momenti di crisi durante il tuo percorso artistico? Come li hai superati?

«I momenti di crisi arrivano quando non senti arrivare un’idea che sia in grado di coinvolgerti pienamente e di fronte hai il vuoto. Lo paragono un po’ all’innamoramento: quando ero più giovane associavo questi momenti di crisi, che di solito avvengono dopo un ciclo creativo intenso, alla partenza di una persona amata. All’inizio sembra riposante; poi, nel tempo, diventa ansiogena e dolorosa con il dubbio che possa non ritornare».

Dall’opera filmica I Cercatori di Luce, 2021 (Aida Accolla)

Come descriveresti la tua ricerca?

«Ostinata e appassionante. Estrarre il visibile dall’invisibile. L’ho detto più volte: lavoro alla materia come un archeologo nel sottosuolo. Attraverso immagini in nanoscala ho accesso a mondi e forme fino a qualche tempo fa imperscrutabili. Mi interessa la correlazione tra la visione degli elementi e delle strutture contenute nella materia e quella delle cose che mi circondano. Entrambe sono realtà, entrambe sono illusione. La nostra percezione del mondo e quella di noi stessi appare, probabilmente, come spiega Carlo Rovelli, un’allucinazione confermata. M’interessa il sensibile campo immaginifico che si crea intorno all’invisibile. Attingo alle informazioni della scienza e, in seguito, attraverso l’uso della computer grafica, elaboro le forme e creo mondi paralleli. L’animazione 3D rappresenta per me un potenziale mezzo di sintesi delle arti. Un’altra mia caratteristica è quella di creare relazioni tra l’elemento virtuale e quello tradizionale utilizzando, ad esempio, l’argilla o la pittura accanto al digitale. Lo confermano le mie wunderkammer dove oggetti animati provenienti dal nanomondo dialogano con elementi di forma similare modellati a mano in creta cruda che, come forme germinali, trovano posto nei cassetti dello stipo. Un procedimento d’ibridazione caratterizza anche gli screen painting, tecnica da me inventata, che coniuga la pittura applicata direttamente su monitor con le immagini  digitali in 3D che scorrono sullo schermo creando un percorso imprevedibile. I due elementi sono progettati per coesistere e completarsi l’uno con l’altro; la loro combinazione non è affatto casuale».

Il punto nel tuo lavoro – ha scritto Valentino Catricalà – non è l’utilizzo della tecnologia come ostentazione o compiacimento verso gli effetti speciali, ma piuttosto porre mondi in essere per ricercare, farci riflettere su una condizione ecologica nuova, trovare un’inedita relazione uomo-mondo che si basi sui principi della sostenibilità. Come si inserisce in questo alveo di ricerca la tua opera filmica I Cercatori di Luce che dopo il PalaCinema di Locarno presenti ora al MEET di Milano?

«I Cercatori di Luce vuole essere un forte messaggio di carattere sociale ed ecologico. Si tratta di un’opera filmica all’avanguardia nella sperimentazione tecnica dove tutte le energie sono concentrate sulla ricerca della luce intesa come materia connaturata alla terra feconda e “mente del mondo”. Il lavoro ha lo scopo di evidenziare l’unione primigenia tra l’io e la natura: la luce si espande e diventa luogo di condivisione e di conoscenza: “Solo la luce che uno accende a sé stesso, risplende in seguito anche per gli altri”, ha affermato Arthur Schopenhauer. È stato un lavoro particolarmente impegnativo durato quasi tre anni: tutti i paesaggi sono realizzati in 3D, mentre i personaggi sono reali, ripresi su green screen e poi, in fase di post produzione, inseriti negli ambienti virtuali che riproducono paesaggi nanomolecolari. La realizzazione è stata assai complessa anche se molto interessante in quanto mi ha consentito di rendere visibile il dialogo tra le arti (danza, teatro, cinema, musica, moda). Il lavoro coinvolge attori di fama internazionale (una fra tutti, Angela Molina), stilisti, grandi stelle della danza (Aida Accolla), performer (l’Accademia Kataklò e Giulia Staccioli), top model (Aurora Talarico) e il musicista e compositore Paolo Tofani che ha fatto parte degli Area, tra i più sperimentali gruppi degli anni settanta. Il lavoro rappresenta lo strumento per interrogarsi sul nostro stare al mondo di fronte a un sistema dove la sostenibilità ambientale è stata messa in grave pericolo. È un grande affresco sul potere rigenerativo della natura attraverso il lento percorso che conduce dalle tenebre alla luce».

Quali sono gli strumenti preferenziali per lo sviluppo del tuo lavoro?

«Sicuramente l’animazione computerizzata, ma anche, come ho detto prima, qualsiasi materiale possa avere relazioni interessanti rispetto al progetto che intendo produrre. Non mi pongo dei limiti in questo senso se non, forzatamente, quelli di tipo economico».

Cosa ne pensi del fenomeno NFT?

«Ritengo sia un fenomeno interessante anche se nasconde fenomeni altamente speculativi. Intanto, ha sdoganato in parte l’arte creata attraverso mezzi digitali che è sempre stata guardata con grande sospetto dal sistema. Poi è, comunque, una grande vetrina dove si possono vedere opere che altrimenti non avremmo mai visto. Diciamo che c’è un po’ di tutto ed è necessario entrare come pollicino per non perdersi nel grande brodo primordiale dove galleggiano anche opere inguardabili, purtroppo la maggior parte…Mi preoccupa poi il fatto che la tecnologia alla base della blockchain sia inquinante e poco sostenibile».

Con quale artista del presente o del passato vorresti fare un duetto artistico? Un progetto a quattro mani?

«Per questo occorre una buona sintonia e un’apertura verso l’altro. Forse l’artista con cui sento di condividere una sensibilità comune è Michal Rovner».

Qual è la critica più forte che senti di fare al sistema della cultura e dell’arte di oggi?

«Il sistema dell’arte appare ripiegato su sé stesso, rigido e diffidente verso tutte le vere novità. L’arte è uno dei pochi settori dove, soprattutto in Italia, le creazioni digitali o comunque tecnologiche, sino a tempi recentissimi, sono state marginalizzate anche dal mercato. C’è paura di compromettersi anche da parte di una certa critica e, spesso, si preferisce rivolgere lo sguardo a linguaggi già molto bene collaudati piuttosto che aprirsi al nuovo e quindi anche all’incerto».

Dall’opera filmica I Cercatori di Luce, 2021 (Andrea Damarco)

Che cosa pensi del rapporto tra l’arte contemporanea e la politica?

«Penso che la politica abbia fatto sempre troppo poco per sostenere l’arte contemporanea e gli artisti. Questo, almeno in Italia, è un dato di fatto. Lo sforzo è stato delegato ai privati. Ultimamente, però, qualcosa si è mosso e non sono mancati segnali positivi: un esempio virtuoso è sicuramente l’Italian Council. Di grande interesse è poi la collezione Quirinale contemporaneo curata da Cristina Mazzantini e voluta dal Presidente Mattarella. Nel 2021 una mia scultura è entrata a far parte di questa prestigiosa raccolta».

L’arte contemporanea ha ancora un valore etico e morale nella società contemporanea?

«L’arte quando è tale, cioè autentica e responsabile e non cerca banali escamotage fintamente scandalistici, è certamente un fatto etico».

Pensi che l’artista sia ancora in grado di incidere sulla realtà?

«Sì. Attraverso la visione noi aggiorniamo la nostra immagine del mondo. Le informazioni (concetti, emozioni, sensazioni) trasmesse da un’opera d’arte ci consentono di imparare e, anche se non ne siamo consapevoli, incidono su di noi e su quello che chiamiamo realtà».

Qual è il tuo atteggiamento verso la spiritualità e la religione?

«Non sono interessata ai dogmi, ma credo di avere una forte spiritualità che si esplica soprattutto nel rapporto molto forte con la natura. Anche nel mio lavoro esiste sempre un aspetto misterico che si avvicina molto alla spiritualità».

Cos’è per te oggi veramente contemporaneo?

«Nella società globalizzata abbiamo uno spettro infinito e oggi il passato remoto e il futuro convivono come mai era accaduto prima. Credo che la contemporaneità sia soprattutto un atteggiamento, un modo di essere per trovare nuovi strumenti in grado d’interpretare la realtà».

L’attuale esperienza dell’emergenza sanitaria del covid-19 quale riflessione ti ha fatto maturare sul tuo lavoro artistico, sul tuo ruolo d’artista, sul senso dell’arte e della vita più in generale?

«Sicuramente ha accentuato il senso di precarietà e credo che un lavoro come I Cercatori di Luce abbia a che fare con la pandemia sebbene lo avessi concepito prima che il virus stravolgesse le nostre vite».

Come vedi il futuro?

«Spero luminoso e sostenibile».

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