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Quando la partecipazione è un’arte? Intervista a Marinella Senatore
Arte contemporanea
Leggo nel comunicato stampa di Palazzo Fabroni che la mostra include un ampio corpus di opere del passato e inedite, esemplificative della pratica di Marinella Senatore. Sono quest’ultime ad accendere subito la mia curiosità e, per saperne di più in anteprima, telefono a Ilaria Bernardi, curatrice del progetto espositivo A SALIRE A LE STELLE. «La stessa mostra trae il suo titolo da un’opera inedita di Marinella, l’installazione vincitrice della Sezione Dante dell’avviso pubblico Cantica21, lanciato congiuntamente nel 2020 da MAECI e MIC. Si compone di un proiettore ruotante a 360° che proietta un video su tre identiche sculture raffiguranti una stessa figura femminile, ma rivestite rispettivamente in foglia oro, argento e bronzo, a evocare una trasformazione catartica, dall’Inferno al Paradiso, dell’anima di Vanni Fucci, guelfo nero originario di Pistoia ricordato da Dante nei canti XXIV e XXV dell’Inferno. La mostra include inoltre ulteriori quattro lavori inediti che costituiscono uno sviluppo dei due recenti cicli di lavori, Un corpo unico e Autoritratto, presentati per la prima volta nel 2020 alla mostra personale presso l’Istituto Italiano di Cultura di Madrid, anch’essa da me curata», mi spiega Ilaria Bernardi.
Da qui comincia il mio botta e risposta epistolare con Marinella Senatore.
Al contrario di lavori costituiti o derivati dalle azioni partecipative negli spazi pubblici per cui sei conosciuta, Un corpo unico e Autoritratto sono stati concepiti nel tuo studio. Quale tipo di riflessione sviluppano sul concetto stesso di partecipazione?
«Io lavoro sulla partecipazione non solo come modalità operativa, ma soprattutto come contenuto, come concetto. Sono conosciuta per azioni estremamente inclusive che però hanno sempre avuto una fase di “decompressione”, di riflessione e concettualizzazione attraverso gli strumenti più tradizionali dell’arte visiva come ad esempio il disegno. Ho sempre lavorato in studio, fin da piccola, non è una novità, adoro farlo, e non è secondario a nulla, tutt’altro; far dialogare tecniche più tradizionali per l’arte con la mia pratica partecipativa è una mia scelta molto consapevole; un mio statement. Disegnare, dipingere, concepire sculture di luce o di altro materiale è estremamente coerente, dal punto di vista concettuale, con la mia pratica in quanto il mio focus è sempre una riflessione sulla partecipazione. Ciascuna tecnica delinea una differente modalità di narrazione. Noi conteniamo sul serio moltitudini e molteplici narrazioni e modalità di narrarle. Dunque io sono tante cose e la mia multidisciplinarietà è anche una caratteristica della contemporaneità. La partecipazione è un campo concettualmente vasto: anche un oggetto può essere partecipativo e generare movimento in una comunità (si pensi alle mie luminarie). La partecipazione come concetto, e non come linguaggio, è ciò su cui si focalizza tutto il mio interesse. I linguaggi sono possibilità, ma la coerenza di una pratica sta nel concetto su cui si basa».
Stiamo faticosamente uscendo dal tunnel della pandemia. Quanto il “distanziamento sociale” divenuto un mantra della nostra quotidianità è entrato nella riflessione artistica e umana di un’artista come te, la cui pratica è caratterizzata dalla partecipazione del pubblico, dall’avvicinamento sociale?
«Uno dei miei progetti più conosciuti, The School of Narrative Dance, ha sempre operato online fin dal suo concepimento nel 2012, perché altrimenti invece di essere inclusiva e di voler lavorare con gruppi diversi, avrei sempre ottenuto la partecipazione soltanto di chi non è ammalato, non è in carcere o che può essere esclusivamente disponibile in una location piuttosto che in un’altra. Il corpo non smette di esserci solo perché non ci si può toccare: è in una condizione diversa, ed è proprio su quello che si può essere utili, creativamente sollecitati. Lavorare sulla partecipazione in quanto contenuto innanzitutto, non solo pertanto come metodologia esecutiva, significa rispondere a istanze precise, ragionare sulla inclusività sul serio. Dunque se il tessuto sociale ha delle peculiarità che non consentono una reale emancipazione ed empowerment nel corso dell’esperienza, non procedo testardamente per quella via. Non ci sono idee previe e se non si è disposti a rinunciare a qualcosa di sé in virtù dell’apertura all’altro, a fare addirittura dei passi indietro se necessari allo sviluppo dell’esperienza collettiva, allora ritengo si debba fare qualcos’altro nella vita. In sintesi, se un’azione nello spazio pubblico non è l’outcome giusto ma lo è la realizzazione di un oggetto, si procederà su quella strada. Sono la pratica di un artista e la sua coerenza a essere necessari; il dover sviluppare solo con una tecnica o un materiale, sarebbe una forzatura. Per questo dico che la partecipazione è ancora da comprendere concettualmente nella sua vastità: quello che funziona con una comunità può non aver senso per un’altra, e risultare un’imposizione».
Il tuo lavoro riflette sulla natura politica delle formazioni collettive e sul loro impatto sulla storia sociale di luoghi e comunità. Quali sono le formazioni collettive attuali che ti interessano di più?
«Non seleziono in realtà i gruppi, io invito e già nell’open call per esempio c’è la parte più politicamente impegnata del mio lavoro. Però ultimamente mi capita di lavorare con persone particolarmente vulnerabili, e di vederle fiorire e ottenere un ruolo che le strutture sociali non gli consentono. Sono persone che nel processo creativo, non vincolato a schemi di competitività e aggressione (su questo io insisto molto), riescono a sovvertire anche la propria idea di se stessi. Posso dire di avere il privilegio di vivere delle esperienze che modificano anche me e che diventano la gioia reale della mia vita».
Hai dichiarato più volte che per te l’arte deve essere utile. In quali modi intendi questa “utilità”?
«Non lo intendo con la radicalità della mia collega Tania Bruguera e della sua teorizzazione dell’“Arte Útil”. Senza dubbio però l’attivazione di processi potenzialmente trasformativi è reale, e lascia delle conseguenze, di cui io voglio e devo tener conto. In generale, in un mondo fin troppo pieno di cose materiali e spettri immateriali, mettere al mondo qualcosa, darlo, è una responsabilità che non si può ignorare. Alla TAAS (The Alternative Art School) fondata da Nato Thompson dove insegno, non facciamo altro che parlare di questo recentemente. L’Europa è in vario modo estremamente immobile su temi come l’ecologia affettiva, la cura e il superamento dei suprematismi di sorta attraverso la cultura. Sono temi che non entrano nel dibattito con la forza che un mondo messo in ginocchio da una pandemia – come sempre ricaduta sui più vulnerabili in maniera dirompente – dovrebbe affrontare e ricercare nelle proprie risorse innanzitutto morali e creative, una possibilità».
Nei tuoi lavori, a prescindere dal linguaggio scelto e dai luoghi dove li hai eseguiti, ti sei focalizzata su tematiche come l’emancipazione e l’uguaglianza. Qual è il loro stato di salute oggi dal tuo punto di osservazione?
«Mi piacerebbe poter dire che stiamo migliorando, ma proprio dal rapporto con tanti individui, quindi non solo sulla mia pelle, devo ahimè constatare che ci sono degli spaventosi passi indietro, in alcune nazioni più che in altre. E il nostro Paese non detiene un buon primato: sono ancora in discussione troppe cose. Il livello di awarness è sicuramente molto più alto e la comprensione è cruciale, ma da lì si deve passare all’attuazione».