“Re-coding” è il titolo della prima personale di Davide Quayola, giovanissimo artista di provenienza romana e di adozione londinese, che nella splendida scenografia di Palazzo Cipolla di Roma riunisce una serie di opere realizzate tra il 2007 e il 2021, con la curatela di Jerome Neutres e Valentino Catricalà. Tra i più importanti esponenti della media-art a livello internazionale, Quayola appartiene a quegli straordinari creatori d’arte che, inventando un loro codice espressivo personale e un nuovo linguaggio artistico, hanno riformattato la storia dell’arte attraverso la propria visione. Questa primissima monografica a Roma presenta un panorama completo della creazione dell’artista attraverso un viaggio immersivo nei principali temi della sua arte computazionale, attraverso sistemi di robotica, Intelligenza Artificiale (AI) e software generativi.
Quayola trasforma la tecnologia computazionale in una nuova tavolozza: dipinti rinascimentali e barocchi sono trasformati in complesse composizioni digitali attraverso metodi computazionali, sculture non-finite di ispirazione michelangiolesca sono scolpite mediante mezzi robotici. Dinanzi a videoproiezioni, sculture, e stampe ad altissima definizione, gli spettatori hanno la possibilità di confrontarsi con le incredibili potenzialità artistiche di questi mezzi espressivi e di acquisire, inoltre, indispensabili strumenti di lettura della nostra società contemporanea.
Il percorso di mostra accompagna lo spettatore lungo tre macro aree tematiche, ma già dalla prima sala si ha la possibilità di assaporare l’universo linguistico dell’artista: il soffitto, infatti, è sormontato da un’opera video che ripropone la volta della Chiesa del Gesù di Roma realizzata dal Baciccio da cui si generano figure geometriche di diversa entità che si sovrappongono al turbinio di figure che costituiscono la composizione. Allo stesso modo, al di sotto dell’elaborazione che si svolge in cielo, ad altezza del visitatore sarà possibile osservare a 360° la scultura dissezionata razionalmente del Lacoonte, opera con cui dal momento della sua scoperta, durante il rinascimento, generazioni e generazioni di artisti e studiosi si sono dovuti misurare. La scomposizione che ne viene fuori, che ricorda quella cubista e futurista, è di sapore dinamico ed è resa possibile dalle tecnologie più avanzate utilizzate dall’artista.
La prima area prende in esame l’universo delle iconografie classiche in particolare quelle del periodo rinascimentale e barocco. Si inizia con le stampe a getto d’inchiostro de L’Adorazione dei Magi di Botticelli, della Caccia alla tigre e di Venere e Adone di Rubens, per giungere alle volumetrie computazionali, in cui reticoli di linee bianche fanno percepire i rapporti delle figure nella composizione. Queste traduzioni binarie si ispirano a dipinti di Artemisia Gentileschi, Lavinia Fontana, Elisabetta Sirani, Padovanino e altri artisti che hanno trattato il soggetto di Giuditta e Oloferne. Quello che emerge è la volontà di rilettura attraverso nuovi filtri del classico, messo a confronto con le opere dei grandi maestri riprodotte su cartelli pedagogici, di aiuto non solo per la visita degli spettatori, ma anche per fare da guida nella scoperta del modus operandi di Quayola.
Così, le composizioni classiche cedono il passo alle sculture non-finite nel secondo spazio dell’esposizione, le quali sono di forte impatto visivo soprattutto a livello formale. Esse sono realizzate da dispositivi di precisione che lavorano partendo dagli algoritmi, fondendo insieme robotica, intelligenza artificiale e software generativi,
In particolare il Ratto di Proserpina e le quattro sculture Pluto, realizzate in poliuretano, raccontano il processo di produzione affidato alla macchina, andando a stratificare il materiale come fossero stratigrafie umane.
Infine il viaggio approda all’area della pittura di paesaggio: spazio tematico della mostra in cui ci si prende tempo su tempo per osservare il movimento delle fronde degli alberi, dei ciuffi d’erba che creano visioni conturbanti. I colori della tavolozza digitale si mescolano in maniera morbida, ogni punto si allunga, si torce, si trasforma, la composizione si realizza di volta in volta sotto i nostri occhi per poi liquefarsi e riproporsi di continuo.
Invece, la serie Jardin d’Été del 2017 rimanda, anche nel formato orizzontale, alla meravigliosa sala ovale dell’Orangerie con le Ninfee di Claude Monet, mettendo in luce l’affascinante, anche se paradossale somiglianza, tra il mondo naturale e quello digitale.
L’artista, inventando una sorta di suo personale Impressionismo, ci mostra come nella nostra era digitale, il suo modo di fare arte ci aiuti a pensare e comprendere il mondo in cui viviamo. Sviluppando opere che assumono sia una forma immateriale, come i video, che materiale, come le stampe o le sculture, l’artista ci illumina sul paradosso di un’immaterialità che è di fatto una nuova forma di materialità: il giusto linguaggio che rispecchia la visione del mondo del XXI secolo. Fino al 30 gennaio 2022.
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