«Vedi quella finestra lì? Ci ho fatto uscire un tubo giallo che arrivava dappertutto. È stata una roba forte». Eravamo seduti a un ristorante di piazza del Popolo ed Eliseo Mattiacci indicava quella che un tempo era la finestra della galleria La Tartaruga, la mitica Tartaruga di Plinio de Martiis dove, nel 1967, aveva installato un tubo giallo Agip lungo 150 metri che si srotolava come un serpentone per il centro di Roma. Ah, che storia! I nasi quel giorno a piazza del Popolo dovevano essere tutti all’insù, e gli occhi tutti puntati a osservare le inaspettate traiettorie del tubo.
Erano passati trent’anni da quella mostra che io, per ragioni di età, non avevo potuto vedere, e lui me la raccontava. Non per narcisismo, non almeno più della normale dose di narcisismo che accompagna qualunque artista – altrimenti non sarebbe tale – ma con orgoglio, sì. Con il piacere di ricordare e di raccontare a una giovane giornalista una delle sue storie potenti, aggressive ma alla fine, a loro modo, anche aggraziate, una delle energie positive che aveva sprigionato con la sua arte.
Eliseo Mattiacci se ne è andato dopo una lunga malattia, dopo strazi vari che gli avevano minato quella forza con cui sembrava quasi piegare il ferro, direttamente lui, con le sua mani, senza ricorrere a una fresa o a una qualsiasi macchina, quella sua forza sulfurea che emanava e catturava l’interlocutore. Ma gli attacchi del tempo non gli avevano tolto quella luce negli occhi, quello sguardo magnetico, che faceva pari con i magneti da cui tanto era sedotto. Eliseo era piegato, ma vivo. Ancora innamorato della potenza che si può esprimere con l’arte. «Vorrei che nel mio lavoro si avvertissero processi che vanno dall’Età del ferro al Tremila», aveva detto e qualcosa di simile si avvertiva sul serio nelle sue opere. Un’energia che lui sapeva governare senza mortificare, sia che prendesse forma nell’Ordine cosmico che, dopo un esordio travagliato a causa dei soliti balletti della Giunta comunale, aveva donato a Pesaro, dove da anni svetta superba sul mare di questa città, dove l’artista viveva con la moglie Silvia e dove era nata Cornelia, la figlia che da anni si occupa del suo lavoro. E sia che si trattasse proprio della Culla di Cornelia, fatta amorevolmente, ma in ferro, o che invece fosse, molti anni prima, Azione con rullo compressore con cui aveva dato il suo fragoroso contributo alle invenzioni dell’Attico di Fabio Sargentini.
Mattiacci era un artista che si misurava prevalentemente con lo spazio aperto, perché qui, a partire dall’osservazione della morfologia del paesaggio, poteva esprimere meglio quelle tensioni dinamiche che caratterizzano il suo lavoro. Ricordo l’opera permanente a San Gimignano: un asse orizzontale che fa da contrappunto alla verticalità della “Manhattan del Rinascimento”, la gemella di quella di Pesaro che era fuori il Pecci di Prato, prima che – chissà perché – venisse rimossa insieme ad altre, l’intervento alla Fattoria di Celle di Giuliano Gori e la bellissima mostra che accompagnò il progetto, accanto a un paio di partecipazioni alla Biennale di Venezia e a mostre in Italia e in giro per il mondo.
L’avevo conosciuto proprio in uno dei progetti di Arte Ambientale che nell’Italia degli anni Novanta ebbe una discreta fortuna. Stavolta la regione toccata da questa pratica artistica che del confronto con lo spazio faceva il suo verbo, era la Sardegna, il territorio aspro dell’Ogliastra dove magicamente si erano posate le opere di Staccioli, e che poi sarebbe stato omaggiato da Nagasawa e Maria Lai. Eliseo vi era arrivato come me per un convegno, l’inaugurazione di un muro ricamato di Maria Lai e di un giardino zen di Nagasawa. Una bella storia, una fantastica occasione per me per conoscere questi grandi artisti. Uno più generoso dell’altro, ma anche uno più simpatico dell’altro, complice anche la presenza di un altro grande, dotato di uno humour tanto elegante quanto irresistibile: Vanni Scheiwiller, il critico ed editore di All’insegna del pesce d’oro. Mattiacci e Nagasawa erano vecchi amici, in comune avevano quella sfida agli equilibri impossibili, la ricerca di soluzioni apparentemente improbabili, Maria Lai, più appartata.
Il convegno andò bene. Io, con un’ansia che mi divorava, riuscii a fare il mio intervento. Rimasi stupefatta quando, a fine mattinata, Maria Lai, serissima, si alzò dalla sua sedia per congratularsi con me. Poi il resto del week end passò tra mare, vermentino e discussione dei progetti, ad ascoltare da Nagasawa lo sviluppo che avrebbe dovuto prendere il suo giardino e da Maria Lai le storie che raccontava il suo muro. Eliseo non realizzò mai il suo progetto che prevedeva l’uso di putrelle ed altri volumi sospesi e temo che l’incuria, il cambio delle amministrazioni e un’epoca progettuale passata per sempre abbiano messo la parola fine anche agi interventi che erano stati realizzati. Lui ha continuato a lavorare, da un po’ di anni con sempre più fatica,ma ci sono state due occasioni, nel 2017 e l’anno dopo, che hanno fatto vedere molte delle cose realizzate da Mattiacci in oltre 50 anni di vita artistica: la mostra al Mart di Rovereto e quella al Forte Belvedere di Firenze, dove si è potuto capire quanto era grande, poverista e originale, potente e raffinato. Uno che osava e che aveva teneramente a cuore l’arte. Fino all’ultimo intervento, un paio di mesi fa a Urbino, vicino la sua natia Cagli, per “Incontro a Palazzo”. Anche quella sera Eliseo non c’era. C’erano i suoi amici, i compagni di quest’ultimo progetto: Paolo Icaro, Luigi Carboni, Giovanni Termini, affettuosamente guidati da Adele Cappelli. Non ho potuto salutarlo, cerco di farlo ora.
Ciao Eliseo, che il viaggio ti sia lieve.
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