La Galleria Anna Marra di Roma presenta, fino al 13 novembre 2021, la prima personale in Italia dell’artista Rebecca Brodskis (Francia, 1988), intitolata “La danse de l’absurde”, curata da Giorgia Calò.
Brodskis possiede due facce della stessa medaglia che corrispondono alla sua origine francese e marocchina, la cui formazione è avvenuta tra Parigi, Londra, New York, Berlino e Tel Aviv.
I riferimenti presenti nel suo operato, compreso quello del titolo della mostra, appartengono al Novecento, ad Albert Camus (Algeria francese, 1913 – Villeblevin 1960) e alla trilogia dell’assurdo, quest’ultimo definito dallo scrittore un “figlio della terra”. Ed è proprio della condizione terrena, umana che parla l’artista, attingendo alla definizione di danza moderna del coreografo ungherese Rudolf Laban de Varalja (Bratislava, 1879 – Weybridge, 1958), letta da Giorgia Calò attraverso Il Mito di Sisifo.
«Gli equilibristi e i danzatori che abitano il mondo astratto delle dodici tele a olio in esposizione, appaiono sospesi in un equilibrio instabile e perpetuo», osserva la curatrice. I ritratti di Rebecca Brodskis, slegati dall’idea classica di rappresentazione, assumono una bidimensionalità tipica bizantina, perdendo ogni riferimento spazio-temporale, il cui dinamismo li sottrae a qualsiasi sovrastruttura sociale o appartenenza di genere. I personaggi, rappresentati singoli o in coppia, si intrecciano senza toccarsi; la rigida espressività è affidata al volto, soprattutto se in primo piano, e alle mani, che l’artista afferma, in un nostro colloquio, essere l’unica parte del corpo ritratta dal vero.
«Sono metafore dell’umano contemporaneo impigliato in circoli sociali in continua espansione. Vagano per i meandri di città tentacolari, condannati all’estrema lucidità, ma costantemente invasi dalla paura del domani», spiega l’artista.
La visione d’insieme appare ordinata da una geometria intuitiva, animata da inganni ottici e campiture omogenee dai colori acidi dell’espressionismo tedesco. Essa si pone come indagine dell’interiorità umana, di cui è emblematica l’opera Georgia (2021), a cavallo tra una possibile coreografia e una ricerca identitaria, oltre il vetro metaforico della propria anima.
«Talvolta quando il ballo, la frenesia, il violento abbandono di ognuno mi gettavano in un rapimento stanco ed appagato insieme, mi sembrava, per lo spazio di un secondo, di capire finalmente il segreto degli esseri e del mondo», afferma Camus, le cui parole sembrano sintetizzare il senso che muove la mostra.
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