Allo Studio Trisorio di Napoli, la personale di Rebecca Horn “Lo stato dell’anima” presenta un nucleo di opere realizzate nel lungo arco temporale che va dagli anni Ottanta a oggi. Una essenziale ma densa selezione che dà conto della sua poliedrica produzione, tra dipinti, installazioni, sculture meccaniche.
Se i temi legati all’identità femminile permeano a più riprese la ricerca di Horn e qui ritornano in lavori come Die Preussische Brautmaschine (1988) o i più recenti Die Brüste der Dreieinigkeit (2019), Die Dreifaltigkeit der Begierde (2021) e Die zehnköpfige Schlange (2022), è la centralità assunta dal linguaggio del corpo a configurarsi come fulcro attorno al quale ruotano le opere esposte, testimoni del retaggio performativo della loro autrice.
Avviato il suo percorso nell’alveo composito della performance e della Body Art degli anni Settanta, l’artista espande infatti le possibilità sensoriali ed espressive del corpo, in uno spirito di forte impronta surrealista, attraverso il quale accosta agli arti e al volto elementi presi dal mondo della natura o da quello della tecnica, inventando ex novo le proprie appendici per trasformarsi in una creatura ibrida in grado di dare forma alle pulsioni fisiche. In questo senso, le sue opere sono controverse macchine del desiderio, che rimandano al tempo stesso ad azioni rituali o a moti ossessivi (Art Eaters, 1998).
Nell’estendersi del gesto artistico alle protesi che Horn si costruisce, la pulsione finisce per trasmettersi alla macchina stessa – sia essa una scultura meccanica o un dipinto, dispositivo anch’esso di espressione corporea, in cui l’identificazione tra opera e artista passa per la misurazione delle reciproche dimensioni come nei Bodylandscapes. La macchina diviene allora essere desiderante, che esprime un’energia vitale propria, probabilmente residua ma ormai autonoma rispetto al corpo dell’artista. In questa definitiva autonomia dell’oggetto, in cui tuttavia riconosciamo forme, movenze, ossessioni che ci appartengono, in una forma attentamente ricercata, in cui pure la componente accidentale è parte ineludibile della forma stessa (il modo in cui la pittura gocciola sulle scarpe da sposa; le immagini che gli specchi captano ruotando intorno alla conchiglia; i graffi che i “grilli” metallici incidono sulla tela), le creature di Rebecca Horn si rivelano ancora di dirompente attualità.
L’allusione organica (nel riferimento al nutrimento, agli organi femminili, al mondo animale) non arriva mai ad annullare la componente oggettuale/meccanica, in un continuo sconfinare dell’una nell’altra e viceversa. Lo stato dell’anima sembra allora definirsi in questo irrinunciabile dualismo, che se da un lato appare specchio del binomio che associa la ragione e l’istinto, dall’altro non può che risolversi nelle loro rispettive, infinite possibili ricombinazioni.
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