Presentata per la prima volta al Tel Aviv Museum of Art nel 2015 e qui in Italia al suo debutto assoluto in occasione della preview di Arte Fiera, Rescue, la performance ad opera del collettivo israeliano Public Movement proposta da Fondazione Furla stupisce per la potenza comunicativa.
Si tratta di un lavoro, curato dalla direttrice artistica della Fondazione Bruna Roccasalva e coordinato per il collettivo da Dana Yahalomi, che coniuga installazione, performance e coreografia in una sorta di danza politica originata da studi preliminari svolti sul campo, grazie all’addestramento con addetti alle operazioni di soccorso in Israele e in Europa e frutto di una riflessione intorno al concetto di post-trauma nella società.
In una picture complessiva di ampie dimensioni, così come il Padiglione 25 consente, il collettivo di performer si è mosso tra giganteschi piloni di macerie, sapientemente organizzati in un equilibrato gioco di pieni e vuoti; una desolazione temperata dalla maestria degli ambienti sonori ottimamente progettati. Qui, in un evento di due ore, hanno veicolato uno storytelling esemplare, fornendo una risposta plausibile sia ad un evento bellico, che ad un disastro naturale o ad un attentato parimenti: anche se infatti la memoria corre immediatamente a quanto occorre nell’est europeo la performance si propone come un’opera aperta, applicabile cioè ad una pletora di situazioni potenziali.
Si delinea una reazione sociale di solidarietà e comunione, un affratellamento nel disastro, una chiarità interiore contrapposta all’entropia esteriore. Ciò che più piace e che in parte spiega la lunga marcia del collettivo – che è stato presente al Guggenheim Museum e il New Museum di New York, alla Biennale Internazionale di Göteborg, presso il Tel Aviv Museum of Art e alla Biennale di Berlino, durante l’Asian Art Biennial di Taiwan, l’Impulse Festival di Düsseldorf e il Baltic Circle Festival di Helsinki, al Pinchuk Art Center di Kiev, e al Performa a New York – è la capacità di attivare un discorso empatico con il pubblico.
Lontano nel tempo e fino all’antica Grecia si ritrova l’usanza di “provare la guerra” in teatro, per idealizzare il coraggio che sarebbe poi servito sul campo. Oggi più che mai, all’interno di un senso critico spesso saturo di immagini e per questo anestetizzato, “vivere” essere cioè un corpo agente e agito o almeno uno spettatore fisicamente presente lima la distanza tra l’evento e la sua reazione emotiva, permettendola: la performance arriva netta e crea una frattura in cui è possibile abitare un nuovo spazio di riflessione.
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