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Stavolta, sotto la lente del restauro del contemporaneo, un’opera che fa parte della corrente dell’Arte Cinetica, di una grande protagonista italiana: Grazia Varisco.
L’artista
Grazia Varisco nasce a Milano il 5 ottobre 1937. Fra il 1956 e il 1960 studia all’Accademia di Belle Arti di Brera sotto la guida di Achille Funi. Al termine del percorso accademico si unisce ad altri quattro giovani artisti – Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo e Gabriele De Vecchi – dando origine al Gruppo T (dove T sta per Tempo) che nasce ufficialmente nell’ottobre 1959. I membri del gruppo avvertono un senso di “ristagno” nella produzione artistica coeva e cercano di superare questa sorta di impasse ribaltando la posizione dello spettatore: la partecipazione attiva deve costituire il fulcro dell’esperienza sensoriale ed ecco che “Si prega di toccare” diventa un invito esplicito.
La variabile “tempo” diviene protagonista e dalla sua interazione con lo spazio scaturiscono opere di innegabile novità caratterizzate da una sensibile mutevolezza (effettiva o a volte solo apparente) e dall’utilizzo di componenti meccaniche/industriali. La critica accoglie con discreta diffidenza le sperimentazioni del Gruppo T ma Gillo Dorfles e Giulio Carlo Argan ne intuiscono subito la spinta innovatrice. Fra il 1960 e il 1964 il gruppo partecipa a 14 esposizioni “Miriorama” e intreccia rapporti di collaborazione con artisti e intellettuali. Nel 1962 Bruno Munari propone la prima mostra di “Arte Programmata” e Cinetica che viene ospitata a Milano, Venezia, Roma per poi raggiungere gli Stati Uniti. Umberto Eco ne cura il catalogo.
Sulla superficie delle Tavole Magnetiche Grazia Varisco dispone vari elementi dotati di calamita e incoraggia il fruitore a giocare per mettere a confronto concetti opposti come sopra/sotto, prima/dopo, chiuso/aperto. Nella sua produzione seguono poi gli Schemi luminosi variabili, pannelli in cui l’alternanza fra luce e buio conferisce al soggetto notevole dinamismo grazie alla componente “automatismo/programma” che fa cambiare l’opera sotto lo sguardo di chi la osserva.
Nella seconda metà del decennio l’artista inizia il suo percorso di ricerca individuale insistendo sul tema dell’ambiguità percettiva: il dubbio, il SE, è un elemento intenso che sente proprio e ritiene inscindibile dall’esperienza visiva. L’imprevedibilità caratterizza anche lavori successivi come i Reticoli frangibili, i Mercuriali, le Variabili+Q in cui la disposizione (o lo spostamento) dei singoli elementi in vetro presenti sulla superficie restituisce, di volta in volta, fenomeni ottici diversi. Con gli Spazi potenziali l’artista sospende le ricerche sul movimento esplorando, sempre in maniera ludica, la percezione spaziale. Dopo aver utilizzato per anni materiali pesanti, che richiedevano un approccio molto “fisico”, con le Extrapagine passa alla leggerezza della carta indagando il ruolo del caso nel processo di stampa.
A cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta visita spesso gli Stati Uniti entrando in contatto con artisti e docenti universitari ed ampliando così i propri orizzonti di studio. Diventa titolare della cattedra di Teoria della percezione a Brera dal 1981 al 2007.
Parallelamente all’insegnamento prosegue l’attività artistica occupandosi dell’interazione fra volumi e spazio e di come questi rapporti influenzino la percezione: nascono dunque gli Gnomoni, i Duetti, i Silenzi, i Quadri comunicanti. Il tema del tempo e dell’attesa riemerge in opere più recenti come Risonanza al tocco, dove viene richiesta la partecipazione dello spettatore per far vibrare gli elementi compositivi e, contestualmente, anche i propri sensi.
Grazia Varisco vive tuttora a Milano e vi prosegue il suo entusiasmante percorso artistico.
L’opera
La poetica dell’artista si lega ad alcuni temi che riemergono con costanza nel corso del tempo. Grazia Varisco assimila la propria ricerca ad una sorta di “parabola esistenziale” composta da momenti diversi che si succedono. All’interno di questo linguaggio figurativo l’ambiguità percettiva costituisce un elemento affatto peculiare proposto all’occhio dello spettatore attraverso l’impiego di forme che, di volta in volta, vengono smentite e si rigenerano. Tale approccio vale in modo particolare per il gruppo dei cosiddetti Mercuriali, dispositivi motorizzati in cui l’artista sperimenta «la variazione ottico cinetica con l’uso di vetri industriali a superficie lenticolare che rifrangono e alterano lo schema geometrico di base in relazione allo spostamento dell’osservatore».
Queste opere, realizzate indicativamente nella seconda metà degli anni Sessanta, data la loro natura “meccanica” necessitano oggi di un’attenzione particolare per quanto concerne l’aspetto conservativo e/o manutentivo. A maggior ragione quando siano state acquistate da collezionisti che sperano di preservarne il più a lungo possibile il valore economico.
È il caso di un Mercuriale presente in collezione privata milanese che, per l’eterogeneità della sua composizione materica, rappresenta un efficacie esempio delle nuove sfide poste al mondo del restauro dall’arte contemporanea. L’opera presenta una struttura lignea quadrata (36x36x10,2 cm) coperta frontalmente da uno strato di vetro industriale quadrionda. Sulla superficie vitrea poggia, internamente, un foglio di carta argentata nel cui centro è stata ritagliata la sagoma di un cerchio. Questo foro accoglie un cartoncino dello stesso colore decorato con 120 borchie metalliche di diverse dimensioni (tutte argentate tranne quella centrale dorata). All’interno campeggia un motorino elettrico che permetteva in passato di regolare il movimento del disco centrale.
Per arginare gli inevitabili processi di deterioramento dei materiali l’opera è stata recentemente restaurata con la supervisione dell’artista.
Il restauro
L’intervento è stato eseguito a Milano dal Laboratorio di Conservazione e Restauro Open Care. Ad una prima osservazione l’opera presentava alcune borchie distaccate dal supporto e nei rispettivi punti di fissaggio emergevano i feltrini e il nastro biadesivo sottostanti. Anche la carta argentata posta sopra il vetro aveva perso la sua aderenza originaria. La presenza di alcuni aloni all’interno della scatola poteva essere ricondotta all’eccessiva umidità, condizione che aveva influito negativamente anche sull’apparato elettrico. Un ulteriore spia del degrado era costituita dallo spesso strato di polvere visibile sia all’interno che all’esterno del manufatto.
Grazia Varisco ha fornito delle chiare indicazioni operative ai restauratori e questo ha permesso di svolgere l’intervento senza intaccare eccessivamente l’identità dell’opera. I fili elettrici non sono stati cambiati mentre la carta argentata, presentandosi piuttosto compromessa, è stata sostituita con un nuovo foglio (della stessa grammatura) rinforzato da un sottile cartoncino da conservazione a PH neutro.
Il motorino è stato smontato e le parti metalliche soggette ad ossidazione sono state ripulite ed oliate. Le borchie sono state lucidate con particolari soluzioni applicate tramite un panno in microfibra e gli elementi distaccati sono stati ricollocati in sede tramite l’inserimento di nuovi pezzi di biadesivo. Per eliminare le macchie di umidità presenti all’interno della scocca lignea è bastato effettuare un passaggio con carta vetrata a grana sottile mentre le singole viti, tutte arrugginite, hanno subito un trattamento di riconversione tramite soluzione liquida. La parte esterna, verniciata di bianco, è stata pulita con acqua e tensioattivo per riportare la superficie alla giusta omogeneità cromatica.
L’artista ha sollecitato la rimozione dell’attaccaglia posta sul retro del Mercuriale perché, secondo la sua interpretazione, l’opera è valorizzata al meglio se viene appoggiata anziché appesa. Questa indicazione dimostra l’importanza di una buona sinergia fra il creatore, il proprietario e il restauratore del manufatto e ci fa capire, soprattutto, quanto possa essere complesso garantire la conservazione dell’arte contemporanea rispettando tanto la poetica di chi l’ha prodotta quanto la volontà di chi l’ha comprata.
Invito alla lettura
In opera. Conservare e restaurare l’arte contemporanea, a cura di Isabella Villafranca Soissons, Venezia, 2015, pp. 173-5.