08 giugno 2024

Riapre la stagione dell’arte contemporanea di Castel Belasi in Val di Non. Protagonista è la crisi climatica

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La mostra collettiva Come Isole a cura di Stefano Cagol, realizzata in collaborazione con MUSE – Museo delle Scienze di Trento, fino al 27 ottobre 2024, inaugura la nuova stagione espositiva di Castel Belasi, a Campodenno (TN), che riapre dopo la pausa invernale.

Monica Smaniotto, Se tutto smettesse d'essere, 2022, fine art print, 40 x 60 cm. Courtesy the artist

Sul suggestivo panorama della Val di Non, la comunità di Campodenno festeggia orgogliosamente l’apertura di una nuova stagione espositiva a Castel Belasi, “gioiello” recentemente restaurato e consegnato alla cittadinanza, come ricorda Igor Portolan, sindaco di Campodenno, e “punto di partenza per il lavoro che si farà”, afferma il presidente della comunità di valle. Dopo la vittoria del premio PAC Piano Arte Contemporanea (2022-2023) del Ministero della Cultura Direzione Generale Creatività Contemporanea, conseguito per la mostra dello scorso anno realizzata in collaborazione con il MUSE, il programma artistico appena inaugurato prevede una mostra di arte contemporanea, una project room under 35 e la mostra di fotografia “La piccola patria di Giovanni Pedrotti. Paesaggi e società del Trentino di inizio Novecento”, realizzata in collaborazione con la soprintendenza e curata dalla dottoressa Katia Malatesta.

Il Castel Belasi

“Siamo in mezzo a un oceano tropicale”, così saluta il suo pubblico Stefano Cagol, riprendendo la metafora dell’isola che ispira la mostra di arte contemporanea da lui curata e ospitata al piano superiore. Le conseguenze dell’impatto della civiltà sul pianeta sono le principali protagoniste di una riflessione che mira a coinvolgere lo spettatore nei temi ambientali mediante il linguaggio dell’arte. Attraverso le idee di quindici artisti – Esther Stocker (Italia, 1974), Wim Delvoye (Belgio, 1965), Janet Bellotto (Canada,1973), Heba Dwaik (Kuwait, 1983), Annamaria Gelmi (Italia, 1943), Mary Mattingly (USA, 1978), il collettivo spagnolo PSJM (Spagna: Cynthia Viera, 1973 e Pablo San José, 1969), Michela Longone (Milano, 1995), Silvia Negrini (Sondrio, 1982), Marco Tagliafico (Alessandria, 1985), Monica Smaniotto (Cles, 1986), Gianni Motti (Italia, 1958) e Thiago Rocha Pitta (Brasile, 1980) – il visitatore è invitato ad aprire gli occhi davanti alla forza della natura e alla prepotenza di un’umanità ormai troppo distaccata da sé per comprendere ciò che comportano le proprie azioni.

Mary Mattingly, Primary Mend, 2024, textile sculpture, diameter 60 cm. Courtesy the artist, Robert Mann Gallery, New York

È proprio un’opera di Cagol, We are the Flood. Ilulissat, ad aprire la mostra. Nel video la convivenza tra uomo e ghiacciaio è protagonista. “Eterni” per definizione, i ghiacciai sono invece vittime di un diluvio innescato dall’uomo stesso, che, ormai in balia delle conseguenze delle proprie azioni, li trascina con sé. A guidare il visitatore nella sala seguono gli “accartocciamenti” dell’altoatesina Esther Stocker, anche questi letti in relazione all’illusione di controllo che l’uomo pensa di possedere sulla prorompenza della natura, al super ego che da sempre ha caratterizzato l’umanità nei confronti dell’ambiente di cui è ospite e che costantemente cerca di controllare e sottomettere, per poi essere spazzato via da una forza inarrestabile che va oltre le nostre capacità.

Esther Stocker, Senza titolo, 2024, site-specific installation, print on PVC, mixed media. Courtesy the artist

Particolarmente suggestivo e dalla forte carica emotiva è “l’intermezzo” offerto da un’estesa video proiezione di Thiago Rocha Pitta. Nel video due piante su una barca, lasciate alla furia del mare senza un punto di riferimento, nell’immenso vuoto che le circonda. L’opera, in collezione al MoMA, è stata realizzata in un momento delicato della vita dell’artista, ovvero la perdita del padre. La mancanza di un punto di riferimento a cui una volta eravamo ancorati rende l’opera coerente con le tematiche della mostra. Immerso nella penombra della sala, in balia del video e delle onde del mare che quasi illudono anche il nostro senso dell’equilibrio, il visitatore può fermarsi a riflettere su ciò che, prendendo per scontato, stiamo perdendo, per poi concedersi la possibilità di sperare in un futuro diverso grazie alle “geometrie sociali” del collettivo spagnolo PSJM (Cynthia Viera e Pablo San José) esposte nella sala successiva. Se è vero che le nostre azioni ci hanno portato a un punto di non ritorno, non è nemmeno giusto non credere nella possibilità che un futuro diverso sia comunque un futuro vivibile. Il collettivo spagnolo ci parla di prospettive di miglioramento dell’aria in grafici mutati in opere artistiche dai colori squillanti.

Silvia Negrini, An Island, 2018, enamel on canvas, 100 x 180 cm. Courtesy the artist

Il peso delle nostre stesse azioni, il nostro continuo produrre e gettare via è rappresentato in maniera particolarmente efficacie da Mary Mattingly, ecologista e attivista, che pone sotto i nostri occhi l’ingente presenza di scarti e rifiuti che noi produciamo nella vita di tutti i giorni e in tempi velocissimi, andando ad appesantire non solo il nostro Pianeta, ma inconsapevolmente anche noi stessi, schiacciati – come possiamo vedere nella fotografia che è stata copertina del libro Art in the Anthropocene – dal nostro stesso consumismo. Un’altra fotografia, quella di Monica Smaniotto, è altrettanto emblematica. Scattata in Croazia, presenta la contrapposizione tra una zona di terra erosa dal sale portato dal vento e su cui non potrà più crescere nulla, e una zona in cui l’uomo è invece libero di vivere, ma che vediamo occupata da elettrodomestici abbandonati. “È una domanda aperta sul futuro prossimo, su cosa lascerà l’uomo alle prossime generazioni”, spiega Smaniotto. Quello del cambiamento climatico è un monito lanciato alla società in tempi remoti e rimasto inascoltato e sottovalutato troppo a lungo. In questo senso chiude la mostra il video di Gianni Motti, girato negli anni Novanta e già esposto a inizio anni Duemila allo Swiss Institute di New York. L’artista si eleva magicamente, innalzandosi al di sopra di una montagna, ancora più in alto rispetto ad essa. Dall’antica Grecia fino ai nostri giorni, la grande debolezza dell’uomo è sempre stata l’hybris, quel senso di superiorità e tracotanza che lo fa sentire superiore persino agli dei, ma, così come le leggende narrate nei bellissimi affreschi di Castel Belasi, le sfide che lanciamo a forze che non possiamo controllare ci si ripresenteranno sempre in forme diverse.

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