Se passando da Clima Gallery in questi giorni dovesse capitarvi di scorgere il manto striato di una tigre, niente paura, avvicinatevi. Una volta entrati, noterete anche, proprio davanti alle sue fauci, una bimba che gioca, senza curarsi troppo della famelica presenza alle sue spalle. Quella appena descritta è a tiger’s leap into the past, una delle sei tele di Justine Neuberger esposte fino al 20 gennaio presso la nuova sede milanese in via Lazzaro Papi 3. La giovane artista, classe 1993, ha conquistato in breve tempo la scena newyorkese esponendo in numerose mostre collettive e più recenti personali presso alcune prestigiose gallerie della Grande Mela. Ha esposto anche a Los Angeles, Arles e Torino ed è la seconda volta che espone a Milano con Clima. Tornando alla nostra tigre, il titolo dell’opera è ispirato da un passo del famoso saggio di Walter Benjamin, On The Concept of History, in cui l’autore affronta la visione della storia come un concetto non omogeneo, un tempo riempito dalla presenza dell’adesso (in tedesco Jetztzeit). Justine Neueberger non parla spesso dei suoi quadri – tanto che per questa mostra non è stato rilasciato dalla galleria nessun comunicato – piuttosto preferisce  lasciare allo spettatore la possibilità di coglierne il significato o dargliene uno del tutto inedito e personale. Per noi di exibart però ha fatto un’eccezione. In questa breve intervista ci racconterà quanto il processo creativo sia fondamentale per la sua produzione artistica e come esso si possa intendere come metafora dell’opera stessa.
Quanto è importante per te il processo creativo? Perché definisci quest’ultimo la metafora dell’opera?
«Credo che i miei lavori siano una metafora per costruire una narrativa e l’essere nel mondo. Conoscere toccando, guardando, misurando e sentendo. Le mie opere sono un tentativo di esternare ed espandere l’esperienza soggettiva, un modo per recuperare parte di ciò che si perde nei sistemi logici, una realazione dinamica tra fantasia, realtà , spirito, materia, ciò che è afferrabile e inafferrabile, mani e voce».
Una delle tue opere in mostra è Time Fetish initiated by Don’t worry, Be Vegan, Make Peace. Mi incuriosisce particolarmente questa figura, il feticcio del tempo. Cosa vuol dire e a cosa si riferisce?
«Ho chiamato il dipinto Time Fetish perché è un oggetto che ho realizzato per visualizzare il movimento nel tempo, che si basa su una fede cieca o sulla magia per funzionare, perché il tempo in realtà non è nostro, non si conosce appieno. La lingua del serpente dice dont’worry, l’aereo di carta dice be vegan make peace. Penso alle parole come un mantra per evocare l’atemporalità . C’è un ristorante vegano thailandese nel mio quartiere che ha lo slogan Be Vegan Make Peace scritto alla finestra. Il serpente è la mia versione dell’antico simbolo del tempo, l’Ouroboros. Il serpente, mentre il tempo scorre, si avvolge intorno a se stesso e le bobine e le squame formano cerchi, che si riferiscono a questa citazione di Gilles Deleuze: “Tra il passato come preesistenza in generale e il presente come passato, infinitamente contratti ci sono, quindi, tutti i cerchi del passato che costituiscono così tante regioni allungate o ristrette, strati e fogli: ogni regione con le sue caratteristiche, i suoi toni, i suoi aspetti, le sue singolarità , i suoi punti splendenti e i suoi temi dominanti. A seconda della natura del ricordo che stiamo cercando, dobbiamo saltare in un cerchio particolare”. In basso a sinistra i numeri 1-10 circondano un burattino di carta senza faccia. Io e i miei amici abbiamo scritto quei numeri per confrontare la nostra scrittura a mano, per vedere come il nostro segno ha mostrato parti delle nostre soggettività nonostante rappresentino numeri che sono concordati su valori uniformi».
Abbiamo parlato finora della parte piĂą concettuale del processo creativo, per quanto riguarda quella piĂą concreta invece?
«Lo spazio in basso a destra del serpente è lo strato di sottoverniciatura, esso rivela il processo di sviluppo del dipinto in strati tra i quali serpeggiano le spire dentro e fuori dalla composizione. I due aspetti del processo convivono all’interno dell’opera».
Come abbiamo avuto modo di vedere, per Justine Neuberger l’aspetto concettuale e quello empirico coesistono nella stessa immagine dipinta sulla tela. Inoltre nel gioco di interpretazione proposto, l’artista sembra quasi voler far ripercorrere allo spettatore i suoi passi, ma al contrario. Partendo dalla materia si arriva al concetto. Vista in chiave ermeneutica, l’opera si fa quindi interprete muta del messaggio della sua creatrice.
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