Aprì le porte per la prima volta nel 2009, precisamente il 3 luglio, con una mostra context specific di Nuno Sousa Vieira. Oggi, dopo circa 60 progetti espostivi di artisti come Mounira Al Solh, Wilfredo Prieto, Pilvi Takala, Haris Epaminonda, Jonathas de Andrade, Leonor Antunes, Petrit Halilaj, Laure Prouvost, Zheng Bo, e dopo un incalcolabile numero di attività, tra presentazioni di libri, proiezioni, edizioni, pubblicazioni, talk, laboratori per grandi e piccoli, la Kunsthalle Lissabon, a Lisbona, è considerata tra i centri più attivi nell’arte contemporanea a livello internazionale.
E a 15 anni, tre lustri trascorsi a pochi passi dal Tago, il fiume che nasce in Spagna, lambisce la capitale del Portogallo e sfocia nell’oceano, continua a interrogarsi sulla consistenza della propria forma, sulla ragion d’essere e di apparire di un’istituzione culturale che non sia chiusa in se stessa ma aperta al dialogo con un mondo che si riscrive continuamente e con rapidità.
Giusto per dirne una, al 2016 risaliva la prima edizione di Arco Lisboa – fiera d’arte contemporanea sorella minore di quella più longeva che si tiene a Madrid – che venne salutata come un simbolo del rapido e profondo processo di modernizzazione di tutta la città portoghese, avviato alla fine degli anni ’90.
Se per il suo decimo anniversario, nel 2019, liberò i suoi spazi per lasciarsi attraversare liberamente da quattro istituzioni affini – l’ICA di Filadelfia, Pivô, uno spazio non profit di São Paulo, il magazine Cura, e SALTS di Birsfelden, in Svizzera – questa volta ha deciso di mettere in pausa la sua programmazione, per invitare tre curatrici, Alberta Romano, Yina Jiménez Suriel e Filipa Ramos, a rileggere la propria storia. Tre mostre collettive, dunque, che prenderanno spunto da tutti i progetti presentati, come una enciclopedia da consultare e tradurre in altri linguaggi. A tenere traccia del percorso compiuto, sarà pubblicata anche un’ambiziosa monografia, curata da João Mourão e Luís Silva, i fondatori della Kunsthalle Lissabon, che documenterà con dovizia di particolari tutte le mostre presentate in questi 15 anni.
Intanto, è stata inaugurata la prima mostra del ciclo, Lettera d’amore, a cura di Alberta Romano. «Dopo quattro anni e mezzo di lavoro come curatrice per la Kunsthalle Lissabon, essere invitata a celebrarne un anniversario così importante con una mostra collettiva è un privilegio», ci ha raccontato Romano.
«Quest’invito mi ha dato la possibilità di riflettere su ciò che ho imparato durante questi anni, e su come intendo applicarlo in futuro. Al primo posto ci sarà sempre il rispetto per gli artisti con i quali ho condiviso, e condivido tuttora, il mio percorso di formazione, ma anche il privilegio di potermi far trasportare dalle loro sensibilità affinché mi raccontino un po’ di più di me stessa», ha continuato la curatrice, che ci ha spiegato di aver voluto strutturare la mostra come una lettera d’amore a una istituzione per due motivi. «Il primo perché ho trovato in questo strumento narrativo il modo migliore attraverso il quale esprimere, senza filtri, la mia gratitudine nei confronti dell’istituzione e degli artisti con cui ho collaborato negli ultimi anni. In secondo luogo perché umanizzare un’istituzione culturale rivolgendosi alla stessa in prima persona mi ha dato la possibilità di evidenziarne il lato migliore, quello legato all’ospitalità che riserva agli artisti con cui collabora».
In esposizione, dunque, opere, di cui alcune inedite, di Alice dos Reis, Tamara MacArthur, La Chola Poblete, Laure Prouvost, Giulio Scalisi, Inês Zenha. «Gli artisti e i lavori che, con loro, ho scelto di includere in questa mostra, mi hanno aiutato a rappresentare al meglio quel sentimento di autodeterminazione ed emancipazione in grado di crescere, ad esempio, tra le mura di una cameretta adolescenziale, come lo descrive in maniera puntuale e delicata la scrittrice Olga Campofreda nel suo Camerette, edito da Einaudi».
«Non potevo fare a meno di invitare Tamara MacArthur a partecipare a questa mostra», si legge nella lettera d’amore che accompagna la mostra. «Ogni installazione da lei realizzata è come uno scrigno che racchiude una vena nostalgica e allo stesso tempo infantile che, una volta “aperta”, sembra esprimere l’intrinseco bisogno di condivisione che Tamara ha sempre avuto. Un bisogno che, attraverso l’utilizzo di materiali semplici e spesso precari, dimostra tutta la fragilità e la disperata ricerca di attenzione che nascondiamo dentro di noi.
Da lì la mia mente è subito volata a La Chola Poblete, che spesso pone se stessa al centro delle proprie opere. Le gloriose rappresentazioni dell’artista come diva, icona votiva o star pronta a intraprendere un tour mondiale mi hanno ricordato il mio orgoglio adolescenziale.
Ho sentito la stessa forza e determinazione quando ho incontrato Inês Zenha. Inês mi ha raccontato che, una volta, per sentire la protezione dei muri intorno a lei, ha deciso freneticamente di dipingerli di blu. Il colore e le forme nate dalla necessità hanno finalmente dato a Inês la forza di lasciare quella stanza, lasciando dietro di sé solo i quadri rimasti confinati in quello spazio.
Restare confinati in casa è anche il cuore del lavoro di Giulio Scalisi. Paul, il protagonista della sua opera, vive in una realtà distopica in cui l’umanità ha adottato uno stile di vita prevalentemente isolato. Attraverso l’uso di metafore fantascientifiche, Giulio porta sempre lo spettatore a riflettere su condizioni di disagio brutalmente reali.
Con una delicata installazione video, Laure Prouvost apre il proprio cuore e quello di chi si avvicina a lei per ascoltare la sua voce. Invita generosamente chiunque passi a intraprendere un viaggio attraverso il nostro ecosistema, dandoci anche la possibilità di fare un salto nel nostro subconscio per esplorarne i lati più nascosti.
Infine, non potevo fare a meno di includere For Life a Copper Disease di Alice dos Reis. Un’intervista immaginaria con sua nonna, interpretata da una versione invecchiata digitalmente dell’artista stessa. Una commovente analisi dei ricordi attraverso le idealizzazioni di un passato che non abbiamo vissuto, ma che ha ancora potere su di noi».
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