La seconda tappa, dopo le precedenti, è il Palais de Tokyo, tempio parigino del contemporaneo, alla mostra “Carte blanche à Anne Imhof, Natures Mortes” nella quale il dato significativo è quello di aver affidato a una donna la responsabilità di una mostra molto vasta e impegnativa che affronta il tema dello spazio espositivo come altra componente attiva del messaggio e della comunicazione espressiva. Anne Imhof ha coinvolto anche tante donne e la loro specifica sensibilità nella ri-creazione di questo grande invaso nel quale le opere e gli elementi di architettura del luogo contribuiscono alla formazione di un messaggio emozionale complesso e articolato.
Un secondo tema di riflessione scaturisce dalla constatazione che nell’ampia offerta di mostre si rileva una manifesta prevalenza degli strumenti più tradizionali di rappresentazione e della scelta figurativa in senso lato, contrapposta all’infinita varietà di installazioni e strumentazioni tecnologiche affermatesi negli ultimi decenni.
Paradigmatica si manifesta la stupefacente esposizione di Damien Hirst dal titolo “Cherry Blossoms” alla Fondation Cartier pour l’art contemporain. L’intero spazio espositivo è rivestito da una trentina di grandi tele dipinte – pannelli unici, dittici e trittici imponenti – scelte dalle serie di 103 ultimate nel 2020. “I Cherry Blossoms parlano di bellezza, vita e morte. Sono estremi – c’è qualcosa di quasi pacchiano in loro. (…) Sono decorativi ma presi dalla natura. (…) Sono sgargianti, disordinati e fragili e parlano di me che mi allontano dal Minimalismo e dall’idea di un immaginario pittore meccanico e questo è così eccitante per me.” che questa dichiarazione provenga da Damien Hirst è sorprendente come la tecnica e il risultato.
Come evoluzione della provocazione intrinseca alla stupefacente messe di finti ritrovamenti sottomarini proposta negli allestimenti di Palazzo Grassi e Punta della Dogana alla Biennale di Venezia, nella serie Cherry Blossoms il soggetto tradizionale del paesaggio viene rivisitato con perizia tecnica, con pennellate materiche quasi di pittura gestuale, una sintesi di riferimenti all’impressionismo dell’ultimo Monet delle Ninfee, al puntilismo di Signac e dei suoi compagni, dilatati dal gesto di Pollock e dalla dirompenza dell’Action Painting.
Se la monografica monotematica alla Fondation Cartier dovesse apparire come l’episodica epifania di un ripensamento autocritico, la scelta per l’inaugurazione della Bourse de commerce tra le opere dell’inesauribile Collection Pinault si presenta come una precisa volontà di rappresentare nella complessità espressiva dei linguaggi delle opere delle diverse provenienze geografiche, la forza delle forme tradizionali di espressione artistica, dipinti, fotografia, scultura. Non può considerarsi casuale che la prima opera che il visitatore incontra è una grande tela di Martial Raysse, Ici Plage, comme ici-bas del 2012 una scena grottesca gremita di bagnanti e figuranti come una parodia ed estremizzazione delle grandi foto di spiagge di Massimo Vitali.
Altre due mostre di carattere monografico in sedi museali specializzate ribadiscono le potenzialità degli strumenti di rappresentazione tradizionali e si collocano nella scia della “missione” tutta francese di diffondere la conoscenza di culture specifiche.
Al Quai Branly la mostra “Désir d’humanité Les univers” de Barthélémy Toguo è dedicata appunto a questa figura coraggiosa di un artista cinquantenne del Cameroun che utilizza tutti gli strumenti ceramica, scultura, assemblaggio, composizioni spaziali, fotografia per divulgare una critica alle politiche corrotte e subalterne di molta parte dei paesi dell’Africa.
Alla Maison Européenne de la Photographie una mostra antologica di ampio approfondimento, “Tokyo”, di due fotografi giapponesi collegati da una decennale relazione, prima di maestro allievo e poi di collaborazione, Shomei Tomatsu e Daido Moriyama.
La città pur essendo affrontata con due visioni differenti emerge nella sua complessità visionaria e aliena, immagine anticipatrice del delirio urbano di Blade runner, nella quale si aggirano la gioventù marginale urbana e il mondo drag e punk frammiste a figure della più tradizionale iconografia giapponese sia in un bianco e nero contrastato, che in un colore esplosivo e abbagliante utilizzati da entrambi i fotografi.
La sensibilità più politicizzata di Tomatsu vissuto nella tragicità del dopoguerra propone una fotografia documentaria piena di sensibilità e partecipazione mentre di Moriyama fra l’altro si propone con un allestimento avvolgente una visita immersiva al quartiere vivace e fiorente ma caotico Shinjuku di Tokyo e la serie Platform girata in un giorno lungo il percorso da Zushi e Yokohama a Tokyo, con fotografie di file di pendolari radunati sui binari delle affollate stazioni ferroviarie.
Ancora una volta il panorama delle proposte culturali delle diverse istituzioni che spazia in un orizzonte globale conferma la volontà di evidenziare il valore comunicativo delle diverse coniugazioni culturali come condizione e necessità per l’affermazione e il perseguimento del dialogo fra le diversità.
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