L’eco di una memoria ancestrale è solo uno degli aspetti della vastissima pratica concettuale di Caroline Ricca Lee (1990, San Paolo, Brasile). A partire da riferimenti incostanti ed eterogenei accumulati nel corso degli anni in un immenso an-archivio, l’artista costruisce un vasto immaginario inglobando in sé le più importanti e nevralgiche condizioni a cui l’individuo contemporaneo è sottoposto all’interno della nostra – sempre più alienante – società del digitale.
Una catalogazione costante di oggetti personali e impersonali che l’artista ingloba nelle sue opere in un’ottica massimalista: accumulare diventa una pratica necessaria per risalire alle origini ancestrali e ataviche della nostre identità indeterminata. Piume, rivestimenti interni dei vestiti, fotografie e oggetti di ogni tipo dominano una rappresentazione che riporta alla memoria degli oggetti. Ricca Lee sceglie ciò che è consunto, ciò che possiede un’anima propria indipendentemente dal gesto dell’uomo.
Nel 2023, l’artista è stata insignita del Premio ISOLA SICILIA, promosso da Fondazione OELLE Mediterraneo Antico, che le ha permesso di svolgere un periodo di 45 giorni di residenza ad Aci Castello, in provincia di Catania. Durante questo intenso soggiorno di ricerca, Caroline ha potuto osservare e approfondire la conoscenza della popolazione sicula tanto radicata nelle proprie tradizioni quanto l’artista è radicata nella ricerca, spasmodica, di riproporre le sue.
Nomade, nata a San Paolo, in Brasile, ma di origini nippo-cinesi, Caroline convoglia nella sua, frammentata, identità la necessità di risalire all’origine di quelle ritualità perse, sopite o evidentemente trascurate. In una fase storica in cui tutto ciò che è rituale viene trasformato nel suo sfruttamento economico, occorre riscoprire l’autenticità della memoria, che l’artista tramanda nell’autenticità degli oggetti.
Ed è così che queste suggestioni distanti sono trasportate in Echoes, esposizione curata da Fondazione OELLE Mediterraneo Antico ETS nella Sala Sospesa all’Oval durante Artissima 2024. Nelle sue parole: “c’è una condizione sublime insita in ciò che resiste nel tempo: l’imperfezione, l’incoerenza, il caos. Echi. Una storia può essere raccontata attraverso abissi e reminiscenze, tuttavia, tanto quanto attraverso un assemblaggio di sogni e molteplici possibilità di cura. Il corpo è un portale aperto da secoli: un modo per trovare una voce ancestrale in noi stessi”. Così, Ricca Lee si prende cura degli oggetti che ingloba e fagocita nella sua personalità. Si prende cura della loro storia, delle loro origini, del loro significato… del loro valore. Ben oltre un valore commerciale, ben più legato all’importanza, complessa e labile, dello scorrere inesorabile del tempo.
In questa intervista, ripercorriamo con Caroline Ricca Lee origini e metodologie più o meno espliciti, rimandi più o meno difformi e costruzioni che superano l’oggetto per trasformarsi, molto più semplicemente, in finestre che si aprono sull’immensa vastità della nostra memoria collettiva.
Una domanda piuttosto generica, per introdurre al tuo lavoro, quali sono alcuni spunti fondamentali della tua ricerca?
«La mia ricerca è alla radice stessa dell’arte e il mio lavoro si basa sull’idea di un archivio ancestrale, che rimanda all’immaginario stesso di una casa. Mi piace vedere la casa come un museo non ufficiale o una Terra-Originaria immaginata e immaginaria. Esploro le case di famiglia come una forma di storia alternativa, attraverso documenti, fotografie e arredi, oltre che gli stessi oggetti conservati. Non mi limito solo a collezionare oggetti, ma costruisco un archivio che riflette una storia intima, uno specchio della percezione collettiva su come trattiamo i nostri ricordi».
Nel 2023 sei stata insignita, durante Artissima, del Premio ISOLA SICILIA di Fondazione Oelle, che si è sviluppato in una residenza in cui hai potuto coltivare nuovi aspetti della tua ricerca contestualizzati in un territorio, totalmente differente, come quello italiano. In particolare, della Sicilia. Questa selezione di opere, questa mostra che si è concretizzata negli spazi della Sala Sospesa dell’edizione 2024 di Artissima, in che modo contestualizza il tuo lavoro?
«Quando la Fondazione, nel 2023, mi ha scelto, ho avuto la generosa opportunità dalla sua presidente, Ornella Laneri, di sviluppare una residenza in Sicilia. La possibilità di creare un percorso tra la mia ricerca e il territorio siciliano, all’inizio con occhio straniero, mi ha profondamente stimolata. Mi piace pensare che, alla fine, tutto ciò che sviluppiamo riesce a instaurare sempre connessioni più profonde. Attraverso il poco tempo, 45 giorni, sono rimasta stupida da come le persone e, ancora di più, gli italiani, trattino la ricerca della propria memoria e la profonda connessione tra i propri ricordi e come sono ora.
Questi lavori sono solo alcuni: ho lavorato con un artigiano locale che mi ha preso sotto la sua ala e mi ha accompagnata alla scoperta di alcune manifatture locali, in particolare sull’uso della pietra lavica dell’Etna. Mi ha insegnato quanto la lava vulcanica possa essere distruttiva, tanto potente quanto poetica. Penso che l’artigianato sia una forma attraverso cui possiamo condurre storie oltre il tempo. Durante la residenza, mi sono molto interrogata su come possiamo creare o anche speculare su un approccio narrativo che riguarda l’abisso della profondità infinita della nostra memoria, lungo il caos, ma anche tramite l’amore e i sogni che produciamo costantemente».
Infatti, il tuo lavoro è qualcosa di molto onirico. In un certo senso specifico, perché hai raggruppato oggetti privandoli delle origini per utilizzarli come simbolo della loro memoria personale (la cosiddetta memoria degli oggetti). Come una mano, decontestualizzata dal suo corpo. La tua ricerca costruisce una connessione a una dimensione ancestrale e profondamente collegata alle tue origini. In che modo sei unita a queste dimensioni ataviche, che possono apparire così remote, ma che nel tuo lavoro sono immediatamente vicine?
«Sono nata in Brasile, a San Paolo, ma la famiglia di mio padre è cinese mentre quella di mia madre è giapponese. Cerco costantemente di costruire, attraverso un gesto narrativo, una prospettiva speculativa, sincretica, in cui unire queste tre dimensioni (Brasile, Cina e Giappone) per cercare di generare una nuova lingua – per inciso, sovralinguistica – che unisca tutte queste culture. Considerando l’impatto della storia coloniale, è molto importante per me essere brasiliana e penso che cercare di negoziare con culture differenti sia un modo per provare a trovare una forma che sia verità. Una forma tuttavia che sia anche quella di una storia non solo dall’impatto sulla mia biografia personale, ma pure da quello su altre persone che, nell’attuale cosmologia della diaspora, tentano di dare vita a una storia collettiva più grande».
In un certo senso usi quelli che Byung-Chul Han ha definito “materiali caldi”, perché presuppongono un intervento attivo di chi li manipola e non quei materiali freddi, che presuppongono un approccio distaccato. Ciò che usi è ciò che tocchi, li riempi con l’impronta delle tue mani e, in un certo senso, con la tua memoria. Quindi, qual è il tuo gesto? Quale è la tua ricerca nei e dei materiali?
«Mi piace architettare collaborazioni tra molti materiali: dalla resina alla ceramica, passando attraverso il tessuto e la pietra. Lavoro con la scultura, ma anche con installazioni, video, con la scrittura critica… penso che i materiali siano una forma per accompagnare le storie che sto cercando di organizzare. Che siano lavorati con l’acqua, con il metallo, non concentro il mio gesto in un unico tipo di materiale. Ho studiato la ceramica dal 2017 e penso che, per me, la cosa più interessante di questo tipo di operazione sia la sensazione di poter spingere la forma ai suoi limiti, di poter manipolare la ceramica seguendo il mio desiderio.
In un certo senso, quando costruisco una scultura con acqua, terra o con il metallo, la forma è già lì: devo solo cercare di trovare la forma all’interno del materiale. Quando applichi una forza su un materiali plastico, c’è questa ricerca della forma al suo interno. Un trittico di maschere, il cui nome è Moon-Gen-Taui, parte dal materiale per arrivare alla definizione della perdita: ho costruito queste maschere ogni volta che ho perso un parente, attraverso la ceramica. Non usando un modello o una stampante 3D, ma giustapponendo tutte le foto che avevo raccolto prima. Ho poi cercato di manipolare il materiale per dargli una forma e trovare, al suo interno, il ricordo di chi non c’era più».
Non è la nostra fantasia, ma la nostra interpretazione e speculazione…
«Ovviamente sto cercando di ricreare, in un certo modo, questo senso di ricerca in cui puoi riconoscere, ma non puoi vedere. Non sto cercando di fare un ritratto completo, ma di portare la materia verso la forma del ricordo. Ciò che ricordi è forse più simile a immaginare una faccia, dare una forma, ma non è qualcosa che può essere collegato alla loro identità: è la nostra interpretazione! Come i sogni: ho sentito che nei nostri sogni non possiamo vedere le facce di nessuno, ma abbiamo visto tutti coloro che sogniamo. Mi piace quando usi il termine onirico, penso che non si tratta di plasmare una fantasia, piuttosto di generare la speculazione di una storia e di quanto siamo in grado di trovare possibilità di narrarla».
Non è qualcosa di così reale, è onirico, ma non è nemmeno surreale, immaginario. Penso che sia molto importante perché ciò che è così reale, forse in un modo forzato, non penso che, in questo caso, renda la potenza espressiva di un’opera d’arte. Penso che il tuo approccio sia legato a una sorta di malinconia.
«Ho approfondito molto il sentimento del sublime, e di come il sublime sia profondamente correlato a quello che tu hai definito malinconia. Non sto scegliendo un cammino unico; non analizzo solo il trauma, solo i sogni, solo l’amore, solo la violenza, solo il sublime o solo la malinconia. Sto cercando di rintracciare un equilibrio nella nostra esperienza intima e personale. Allo stesso modo, sto tentando di coltivare un’estetica che sia caotica e non volontariamente disordinata».
Come selezioni gli oggetti? Qual è l’idea catalogatrice che sta sotto la ricerca costante della tua memoria?
«Gli oggetti che ho raccolto sono delle mie famiglie, come delle persone che ho incontrato. In Sicilia ho raccolto molti oggetti da artigiani e dalla popolazione del luogo che ho potuto conoscere, anche se brevemente, e con cui ho avvertito subito un legame molto forte, per quanto effimero. Creo non solo per costruire questi archivi di corpi, ma anche per entrare, metaforicamente, nella comunità di coloro in cui mi imbatto nella mia vita. È come un nuovo corpo collettivo costruito attraverso piccoli brandelli di corpi intimi, che vengono, in un certo modo, “violati”».
Questa ritualità del concentrarsi, dell’ascoltare, del prendersi cura e del dare attenzione, sono qualcosa che abbiamo perso. Forse, meglio, trascurato. La tua ritualità: prenderti cura di te stessa, prendersi cura degli altri, è qualcosa di raro e profondo. Infatti, il tuo lavoro marca quanto la frammentazione delle relazioni sociali del nostro presente corrisponda alla frammentazione della nostra stessa identità. La tua pratica ricostruisce le cose e contribuisce a plasmare nuove forme collettive. Dare cura e prendersi cura. Che cosa implica questa cura?
«Quando ho iniziato a realizzare ceramiche, penso che la mia peggiore paura fosse che potessero esplodere durante la loro cottura. Ma poi, quando effettivamente questo è successo con una delle mie maschere, è come se la stessa identità fosse implosa in migliaia di pezzi. L’estetica frammentata è l’estetica della nostra contemporaneità!
Quando ero in Sicilia sono rimasta incantata da come, nei musei archeologici, i museologi si prendano cura di piccoli elementi, frammenti infinitesimali e, forse, effimeri. Ho visto le reminiscenze di un dito, di un vaso rotto, di un cuore di ceramica, di tutte quelle piccole tracce di manufatti che sono parte della nostra storia.
Penso che, ovviamente, il cuore della mia ricerca sia collegato, senza voler essere didascalica, all’utilizzo della memoria per differenziare etnie, generi, per ripercorrere quel nomadismo che sento tanto mio. Allo stesso modo, ritengo che quando frammentiamo noi stessi solo ed esclusivamente in categorie predeterminate, tendiamo a perdere la nostra stessa identità, la nostra soggettività. Sto cercando di trasmettere, in questa ricerca, una visione comunitaria e, ovviamente, compiendo questa azione c’è una certa critica al colonialismo e alle pratiche coloniali. Tuttavia, quello che mi interessa è soprattutto di inscenare quella dimensione soggettiva e onirica in cui possiamo riflettere su noi stessi; sto cercando di ri-animare questi frammenti e penso che significhi sia prendersene cura, ma anche distruggere senza, necessariamente, ricostruire».
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