Dopotutto, qual e la massima ambizione dell’opera d’arte se non contenere un mondo, aprendo lo sguardo verso la vastità dell’infinito? Fondamentalmente, l’opera d’arte cerca di assumere tre configurazioni: contenitore (dell’infinito), contenuto (l’infinito), contesto (il mezzo attraverso cui osservarlo). Sicuramente, un esempio calzante potrebbe essere il Merzbau di Kurt Schwitters. Prima ad Hannover (dal 1923 al 1937) poi a Oslo (fino al 1947) infine ad Ambleside (fino alla morte di Schwitters nel 1948), la grande opera d’arte totale ha aperto la strada alla definizione di un concetto – in realtà, si potrebbe dire essere già presente all’interno della storia dell’arte in molteplici configurazioni e definizioni – che e diventato fondamentale per lo statuto contemporaneo della stessa arte contemporanea: il milieu.
Ambiente in cui il complesso e l’indeterminato interagiscono costruendo un dialogo costante e inaspettato con lo spettatore; luogo in cui contenuto, contenitore e contesto si ibridano perdendo i propri confini per diventare uno spazio aperto; rizoma infinitamente percorribile che ricalca, in un certo modo, quell’ordine completamente casuale che e l’associazione del pensiero aspecifico e analogico. Senza voler essere didascalici, il milieu può apparire come una sorta di luogo spirituale in cui gli oggetti assumono relazioni alchemiche, si trasformano mutando, allo stesso modo, tutto ciò che e esterno. Essendo uno spazio aperto, trattiene al suo interno l’esterno e si espande al di fuori di se per inglobare tutto il resto.
In questo, la pratica di Roberto Alfano (Lodi, 1981) intreccia i linguaggi per perseguire una certa completezza dell’ambiente che appare piu immediato nelle sue opere piu recenti: le Baracche. A Cosenza, promossa all’interno del Progetto COSMO (un progetto di rigenerazione urbana che mira a riunire le micro-cosmologie presenti nella citta), con la partecipazione de La rivoluzione delle seppie, Alfano presenta due progetti chiave in cui intervengono la partecipazione delle comunità locali e una profonda matrice identitaria: Baracca/Casa interiore (n°3) e Astral Machines (in collaborazione con Francesco Tosini). Eco di ritualità ancestrali e simbologie ataviche, possiedono un certo aspetto e delle forme primitive in cui pittura, scultura ed installazione convogliano, all’interno di questi spazi conchiusi, diverse dimensioni lontane che tradiscono quello spirito del tempo spesso cosi necessario.
La formazione dell’artista lombardo deriva da un immaginario underground molto legato ai graffiti, all’Art-brut e infine ai grandi maestri post-impressionisti e dall’Arte Terapia Clinica, per cui l’artista ha progettato uno specifico metodo di ricerca, il metodo Arte Contemporanea Generativa. Una combinazione di riferimenti che riporta una certa distanza da un sistema mainstream per prediligere la profondità esistenziale dell’individuo.
L’arte diventa maga salvifica che può liberare l’individuo dalle trappole della sua memoria; può essere catarsi di un disagio o di un dolore insostenibile. Questa prospettiva emerge anche nella rappresentazione spaziale delle sue baracche: grezze strutture di legno tappezzate, all’esterno, da opere su tela, contengono al loro interno opere quasi votive – in particolare le sculture dei cani. Lo spettatore può immergersi completamente attraversando o passando intorno all’ambiente che l’artista ha costruito. In questa intervista a Roberto Alfano, cerchiamo di cogliere quella dolcezza, così necessaria, di quel momento di liberazione. Così personale, così intimo, così evocativo.
Una domanda piuttosto generica, ma rituale. In quale frangente si colloca questa riflessione?
«L’esperienza diretta e il fattore imprescindibile dell’immaginario baracche, a partire dalle memorie d’infanzia che ripercorrono gli habitat del mio territorio d’origine (il Basso Lodigiano). Qui negli anni ’80 i cavalli trainavano ancora i carri con le ruote di legno carichi di balle di fieno. Le baracche erano rimesse per gli attrezzi o rifugi arrangiati nel cortile per ritagliarsi un po’ di buona solitudine anziana, con lo sguardo lontano ad un orizzonte illimitato perso nei ricordi. In quegli anni in cui le nutrie ancora non popolavano i campi, invece la nebbia, il fango e il confine sterminato tra cielo e terra erano li ed incontaminati. In questo panorama, ammassi di lamiera e legno in lontananza evocavano mistero e intimita. Le baracche abbandonate erano un rifugio anche per noi che giocavamo tra i pioppi e le robinie, una base sicura in cui trovare il nostro spazio mentale nel piccolo mondo di provincia.
In un altro momento la baracca è stata ritualità della vita di cantiere, dove l’odore di un’umanità stanca, si mischia all’odore della pasta lavamani e della ruggine. Immagini di baracche riemergono anche dalle memorie degli innumerevoli passaggi sull’argine del Po, verso l’imbarcadero di Somaglia a cercare birra e sporca poesia. Baracche di pescatori, di cacciatori o di alcolizzati. Ripenso alle strade di Citta del Messico, alle famiglie povere o ai crackomani acquattati sotto brandelli di plastica che ostruiscono la vista dell’immenso cielo messicano, oppure ai villaggi indigeni sul Rio Negro, dove le capanne e le baracche sono architetture resistenti alla logorante insistenza capitalista. La poetica della baracca è legata principalmente a queste immagini. Poetica che si allarga al macro-tema dell’architettura informale e alla lettura psicanalitica o introspettiva del contenitore/contenuto baracca».
Senza voler rimandare alle ritualità ataviche della pittura parietale (un riferimento, di per se, direi eccessivamente abusato), noto nella tua pittura una vera e propria concezione architettonica. Prima di arrivare a parlare delle tue baracche, vorrei insistere sulla rappresentazione spaziale della forma che e presente nelle tue tele. Mi spiego meglio, con un piccolo preambolo. Se, per la Pop Art, e stato fondamentale riportare il quotidiano nell’arte e l’arte nel quotidiano, il tuo gesto appare come un’operazione che, sì, parte pur sempre dalla matrice – definiamola, per convenienza – pop di introiettare la realtà, però trasformandola radicalmente in una nuova esperienza. Le tue opere trascendono l’esistenza, per farsi presenza di ciò che è e mutarlo in una pura visione. Lo spazio si annulla, si trasforma nella superficie piatta della parete. Quale e l’origine e il rimando di questa rappresentazione che e, in questi termini, pura presenza dello spazio in quanto spazio puro?
«Lo spazio a cui faccio riferimento e lo spazio mentale in cui adatto visioni, pensieri che esorcizzo, l’immaginario dell’esistenza extra-corporale, la memoria dove ritrovo le ombre del mio vissuto per ritrovarmi radicato nella continuità degli eventi. Cosi, in questa architettura eterea, analizzo l’esistenza del corpo, immaginandola come un flusso continuo che deposita detriti, che sono l’humus che alimenta il nostro progredire nella metamorfosi corpo/altrove. In questi termini il quotidiano (e in generale il corso degli eventi) e nella pratica dell’arte. Lo spazio che identifico come di visione, trascende l’esistenza proprio perché e spazio mentale, architettura emotiva, che e lo spazio nella sua purezza».
Allo stesso modo, questo spazio si popola di figure immaginarie, quasi visioni lucide e razionali di un universo complesso che ci circonda. Penso alla ripetizione di alcuni elementi, Il cane per esempio che, come ha detto Piergiorgio Caserini, è “quasi-cane”. Per riprendere l’analogia e la domanda precedente, le tue figure sono vere e proprie “quasi-figure”. Quali sono le loro condizioni di esistenza? Perché popolano questi spazi?
Sono entità simboliche che veicolano un contenuto, altre volte invece sono elementi accessori di una narrazione, che contribuiscono a facilitare la lettura dell’opera. Quelle che definisci “quasi-figure”, sono fluide e tracotanti, ma allo stesso tempo vincolate dalla rigidità̀ del rapporto di dipendenza rispetto al contesto. Il contesto e scenografa e ambientazione, e un’impressione d’orizzonte che varia rispetto al punto di vista come una visione anamorfica, e ciò che succede nella sua bolla. Qui l’identità̀ subisce e accoglie metamorfosi, adattandosi alle caratteristiche di un habitat/contesto passibile di una moltitudine d’interpretazioni narrate dallo sguardo di chi osserva. Penso all’infinitamente esteso orizzonte antropizzato della vastità̀ delle pianure, dove a resistere sono le distanze indefinite tracciate dalle linee dei campi nei giorni di nebbia, i perimetri frastagliati dei fossi, il fumo dei cumuli di letame in inverno, un cane da guardia, una baracca che non può essere casa ma può essere “famiglia”, perché́ rifugio e luogo d’esperienze intime. In questa eterogeneità̀ di contenuti, visioni e forme, la “quasi-forma” e riconducibile ad un’idea d’indefinitezza che si fa emblema della libertà d’espressione. Siamo completi e totali solo nella somma delle nostre diversità̀».
Passiamo alle baracche. Simbolo senza tempo, racchiudono uno spazio intimo e limitano l’interno dall’esterno benché, allo stesso modo, ridefiniscono la configurazione dello spazio. All’interno, la vita. All’esterno, il pericolo, la morte. La baracca come luogo di tanatoprassi in cui rifuggire tutto ciò che e sconosciuto. Una sorta di biblioteca della memoria borgesiana in cui ciò che e contenuto e ciò che assume la sua stessa esistenza. In questa prima parte, dunque, il contenuto. Che cosa cerca – o forse meglio, che cosa deve cercare – lo spettatore nelle tue baracche?
«Deve sentire, deve mettersi in ascolto. Quello della baracca (che solitamente intendo come una casa interiore) e uno spazio protetto, di pensiero, e ovulo, e sempre – embrione. La baracca e un luogo materno e di ripartenza. Può esserlo nell’individualità dei processi oppure nella ritualità della costruzione collettiva, in ogni caso si lascia sentire».
Ora, il contenitore. Costruzioni fragili ed effimere circondate da un accrochage di opere che costruiscono delle narrazioni su ciò che, fondamentalmente, avviene all’interno. Elementi reiterati radicati nella vastità della nostra memoria collettiva. Queste opere costruiscono un ponte che agisce tra dimensioni lontane e distanti ma esistenti. Nello sfalsamento temporale tra passato e presente, si intravede una sorta di nuovo (o antico) futuro: una concezione profondamente differente su ciò che potremo essere. Che cosa ci spingono ad essere? Che cosa dovremmo essere?
«Dovremmo poterci concedere di essere fragili fino a disintegrarci (anche nell’accezione di non sentirci integrati). Rimodellarci dal pulviscolo. Ogni baracca e rimettere insieme i pezzi, ricomporsi in una nuova forma-crisalide. La baracca e contenitore di tempo collassato o sospeso, al suo interno avviene l’impercettibile. Di questo tempio non importano le fattezze, ma ciò che temporaneamente gli transita attraverso, ovvero noi, i nostri corpi colmi di pensiero e magnetismo».
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