Una rivoluzione degli affetti. Roberto Casti ricorda il Maestro Alberto Garutti

di - 9 Luglio 2023

La critica secondo Alberto Garutti

Alberto Garutti ha fondato la sua ricerca sull’atto del guardare. Ma il suo guardare non è mai stato, almeno esplicitamente, un tentativo di esercitare un potere umano sulle cose e sul mondo. Infatti, una delle sue prime opere fotografiche – intitolata Credo di ricordare ed esposta per la prima volta alla galleria Diagramma nel 1975 – dava importanza agli oggetti, rendendoli dei soggetti che vivevano lo spazio abitativo. Da questo ponderato e generoso atto di confronto e relazione con l’ambiente circostante, nasce forse tutto l’approccio critico che ha caratterizzato non solo la ricerca artistica di Alberto, ma anche il suo percorso nel campo dell’insegnamento. Ed è proprio all’interno dell’aula 1 dell’Accademia di Brera a Milano che ho avuto modo di assistere al suo metodo, un approccio corale e raramente autoreferenziale attraverso il quale veniva attivato un dialogo sull’opera d’arte. Questa era il punto focale attorno alla quale giravano tutte le relazioni che la costituivano caricandola di senso. Possiamo dire quindi che il senso stesso del corso non stava nella visione del suo professore ma nella relazione delle persone che lo frequentavano.

Alberto Garutti, Credo di ricordare, 1974, courtesy Fondazione Castellani

E proprio questa dimensione di circolarità – veicolata da un pensiero critico che aveva a cuore il nocciolo delle cose, i problemi del contemporaneo, la nostra stessa responsabilità come artisti e artiste nel mondo – costituiva la vera forma del corso di pittura che Alberto “teneva”. Teneva non è forse la parola giusta perché il corso si autoalimentava grazie al rapporto tra le persone e non era mai modellato dallo sguardo univoco del professore: Alberto prediligeva infatti una modalità pedagogica aperta, non segnata quindi dall’imposizione di direzioni certe o idee fisse su come fare o non fare l’artista ma dal suggerimento, dalla riflessione e dalla messa in discussione dell’opera.
Approccio questo che ha portato me, come tante altre persone che hanno avuto la fortuna di averlo come docente, a mettere in crisi la mia persona e il mondo circostante, a guardare la realtà come a una catena di relazioni che hanno bisogno di essere evidenziate, portate in risalto – e ancora una volta: discusse, trasformate, veicolate da un linguaggio.
E il linguaggio stesso di Alberto – declinato attraverso installazione, scultura, pittura, fotografia – non era un’imposizione dall’alto, ma un’attenta carezza all’oggetto o al soggetto su cui poneva l’attenzione. Il suo paesaggio era quello domestico che penetrava nel naturale e viceversa, con gli spazi vuoti delle case e i fulmini del cielo, con i cani abitanti di un luogo e le persone che camminano al di là del muro.
Far parte del suo corso ha significato prendere parte a una crisi, che è necessariamente una crisi personale che serve a crescere, maturare e risignificare costantemente (a volte forse in maniera fin troppo pressante per la testa di un ventenne) la propria persona nonché attitudine artistica. Ma, probabilmente in maniera più preponderante, si è trattata di una crisi delle necessità collettive. In fondo dal suo corso sono uscite generazioni diverse di giovani artisti e artiste e, se questo vuol dire qualcosa, ognuna di queste generazioni ha saputo trovare al proprio interno un orizzonte comune al quale allinearsi, sia per affinità espressive o intellettuali che per necessità di rivedersi nella stessa crisi del presente, con tutte le sue problematicità sulle quali Alberto ci invitava a scavare e scavare.

Alberto Garutti, Quest’opera è dedicata alle ragazze e ai ragazzi che in questo piccolo teatro si innamorarono, Teatro di Fabbrica, Peccioli, 1994-1997, courtesy comune di Peccioli

L’Etica secondo Alberto Garutti

La prima opera pubblica di Alberto è nata a Peccioli ed è forse quella che racchiude in maniera più semplice ed esaustiva la sua sensibilità. Per quanto concettualmente semplice possa sembrare la decisione di restaurare il Teatro di Fabbrica, l’operazione ha richiesto quattro anni di lavoro (dal 1994 al 1997) non solo progettuale ma anche relazionale. Dal titolo Quest’opera è dedicata alle ragazze e ai ragazzi che in questo piccolo teatro si innamorarono si evince un’attenzione che va al di là del rifacimento di un edificio, si posiziona infatti in quell’interstizio tra l’architettura – campo nel quale Alberto si è formato – e il sentimento che muove le persone che abitano un luogo. Davanti all’ingresso del teatro, una lastra di pietra recita il titolo (o didascalia) dell’opera, fungendo così da
dispositivo significante che dona all’intera operazione di restauro un’aura poetica ma, soprattutto, etica. L’artista che si approccia allo spazio pubblico, amava dire Alberto, deve scendere dal piedistallo e mettersi al servizio della comunità. Lui ha fatto proprio questo: ha parlato con gli abitanti di Peccioli e ha scovato un filo conduttore, quel bisogno seppur nostalgico di ridare importanza a un luogo che in passato ha rappresentato la nascita di relazioni umane e amorose. Questo perché uno spazio, in questo caso architettonico, non può prescindere dalle relazioni che lo animano: è esso stesso modellato dalle relazioni. Perciò l’opera, in questo caso, mette in risalto qualcosa che sta sullo sfondo e lo fa in una maniera talmente semplice da apparire invisibile, soprattutto se paragonata alle innumerevoli opere monumentali che tanti artisti impongono allo spazio pubblico evitando qualsiasi tipo di dialogo attivo con gli abitanti.

Alberto Garutti, Il cane qui ritratto appartiene a una delle famiglie di Trivero. Quest’opera è dedicata a loro e alle persone che sedendosi qui ne parleranno,Trivero, 2009, courtesy Fondazione Zegna

Per questo l’attitudine di Alberto potrebbe essere vista come una presa di posizione unica rispetto alle ricerche di tanti artisti che hanno operato negli anni novanta: è stato uno dei pochi che si è preso carico di una responsabilità. Molte opere si presentano al pubblico sotto forma di monoliti silenti e elitari che spesso allontanano lo sguardo di chi non si sente parte del mondo dell’arte. Le opere di Alberto sono invece aperte, possono parlare al collezionista come alla passante che si ritrova per caso al binario del treno per Malpensa a Cadorna; sono dispositivi di consapevolezza spazio-temporale perché coinvolgono chi guarda proprio in quel momento, al di là della classe sociale o della provenienza, del bagaglio culturale o delle preferenze artistiche. Invitano, appunto, a una consapevolezza che tutti possono attivare. E per farlo Alberto non è mai ricorso a troppi sotterfugi estetici o criptici. L’opera si presenta in tutta la sua semplicità ma la sua forza si nasconde nella potente e complessa rete di relazioni che si palesa davanti ai nostri occhi quando leggiamo una semplice scritta: sono qui in questo momento e sto vivendo, posso sentire i rumori della città e percepire la presenza delle persone che la vivono oltre me, mi ricordo che in questo momento un fulmine sta cadendo da qualche parte nel cielo e una nuova vita sta nascendo.
Non ho mai sentito parlare Alberto di interdipendenza, ma mi viene da pensare che un concetto del genere possa rispecchiare una condizione che sta alla base delle sue opere. Questo perché significa ribadire che la sua ricerca è riuscita a discostarsi da quei modi autoreferenziali, provocatori o sensazionalistici – peculiari degli anni novanta e duemila – di fare arte.

Alberto Garutti, Che cosa succede nelle stanze quando le persone se ne vanno?, Artefiera Bologna, 2023, courtesy BolognaFiere e Emanuele Anselmi – team99Agency

La Poetica di Alberto Garutti

Questo testo appariva sfumato nella mia mente da mesi e mesi ma solo ora ha acquistato un senso. Forse perché è arrivata la notte e ho capito che nonostante le persone siano abituate ad andarsene – per natura o per necessità – tutto continua a vivere e vibrare. L’artista pone l’attenzione su un qualcosa che gli altri non vedono, ne suggerisce la presenza per poi donarle un senso. Serve partire da uno sguardo che deve sforzarsi di ricercare sempre la meraviglia, come quando ci ostiniamo a fissare il sole nonostante le nostre pupille comincino a fare male, come quando proviamo piacere e complicità nell’osservare il nostro cane che ci guarda mentre cammina accanto a noi. Prendere atto di queste relazioni – proteggerle se necessario – e far capire che riguardano tutti. Facciamo parte del paesaggio, abbiamo quindi una responsabilità verso di esso. Siamo inseriti nella
stessa rete di rapporti. E l’arte è capace di fare leva proprio su di essa, perché è capace di
meravigliare o far piangere moltitudini di persone. Non so se le opere di Alberto siano realmente capaci di parlare a tutti, ma di sicuro riescono a fare molto di più rispetto ad altri lavori in cui la figura narcisista dell’artista prevale.
Un occhio poco attento potrebbe effettivamente dire che Alberto non c’è proprio nelle sue opere (a meno che non si prendano didascalicamente ad esempio i lavori fotografici degli anni settanta in cui compare il suo corpo), che le sue siano operazioni fredde e calcolate per raggiungere obiettivi sentimentalisti. Ma questo non corrisponde alla verità. Alberto era immerso nella rete di relazioni che lo portavano a realizzare le opere, amava parlare con gli altri e persino mettere in discussione le sue stesse visioni con noi assistenti. I confronti all’interno dell’aula 1 erano linfa vitale, ne aveva bisogno e negli ultimi anni ne sentiva la mancanza. Ciò che all’apparenza può sembrare un’arte ridotta a un’estetica minimale e caratterizzata da una formalizzazione maniacale e attenta ai più piccoli dettagli (possiamo dire che si mostra effettivamente così), nasconde sempre un’imperfezione che contribuisce a far sì che le sue opere si discostino dalla rigidità di una produzione meccanica e seriale. Per questo nella sua ricerca è importante il retroscena, inteso sia come momento di ricerca su un territorio prima della realizzazione di un’opera pubblica sia come vero e proprio “retro” di un lavoro. Gli orizzonti sono opere asciutte e semplici davanti ma ricche di scritte e impronte digitali sul retro: il fronte è una linea che continua da vetro a vetro mentre la parte posteriore è sempre diversa, è la superficie su cui Alberto ha scritto i nomi delle persone a cui le opere sono dedicate (l’orizzonte ideale della sua vita). L’arte tende alla perfezione e, quindi, è sempre imperfetta. Questo diceva per spiegare il tentativo dell’artista di andare sempre più in là, sempre alla ricerca dell’opera che funziona. Ma il senso dell’arte, questo ho appreso durante i recenti anni passati a lavorare con lui, risiede proprio in quell’imperfezione da cui si cerca di scappare. In realtà l’arte ci tocca perché ci ricorda le nostre fragilità, mette in evidenza la nostra precarietà. L’imperfezione rende autentica l’opera, la rende più umana. In fondo siamo parte del paesaggio, ed esso continuerà a vivere anche in nostra assenza, anche quando non potremmo più esercitare il nostro sguardo. Ma l’arte esisterà solamente fin quando noi saremo vivi. Fin quando esisterà anche solo una persona che ricercherà un senso nel mondo, nelle relazioni, nelle cose. Alberto riponeva molta attenzione nelle cose, aveva uno sguardo diverso, una sensibilità unica. Tutto aveva la potenzialità di divenire opera in sua presenza: dai viaggi in auto accompagnati dalla musica classica alla luce tagliente che divideva il suo studio durante il tramonto. Poi, semplicemente, ti accorgevi che stavi guardando la realtà ma che non l’avevi mai vista in quel modo. E la realtà è anche questa, quella in cui le sue opere continuano a vivere nonostante lui se ne sia andato.
Sarà ancora buio per qualche ora e tutto appare strano. Tuttavia quelle opere vibrano, ci parlano nonostante tutto. Sono le prime opere che ho conosciuto di Alberto nonché quelle che preferisco, forse perché di giorno sembrano invisibili mentre la notte si animano. Proprio come le lucciole, che io non avevo mai visto in vita mia fino al giorno in cui ho ricevuto la notizia. Un artista, per Alberto, deve avere un atteggiamento critico, etico e poetico. La poesia rimane per ultima, perché è quella più importante che definisce l’arte, la rende umana e affettiva, ricca di relazioni. Dopotutto abbiamo un infinito bisogno di persone a cui volere bene, è l’unico modo che abbiamo per condividere le nostre fragilità.

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