La vita è costellata di incontri oppure inconsapevoli sfioramenti. Alcuni di questi passano silenziosi, altri lasciano delle tracce, altri ancora producono inaspettati e sorprendenti rinnovamenti. Così è stato quello tra Sabrina Mezzaqui (Bologna, 1964) e la poeta (sostantivo come da anni suggerito da Alma Sabatini) Elisa Biagini (Firenze, 1970). Un incontro densamente proficuo e prolifico, come è ben deducibile dal titolo stesso della personale dell’artista bolognese inaugurata nel St. Regis Rome, la sede romana della Galleria Continua. “c’è qui nell’aria la parola-ramo” è il titolo della mostra preso in prestito da un verso della poesia Da una crepa (Se l’asse cede, se la/voce affonda,/c’è qui/nell’aria, la/parola-ramo/che ci tiene. – vincitrice, tra l’altro, del Grand Prix de Poèsie Étrangère nel 2018, nonché titolo di una raccolta di poesie edita da Einaudi) della poeta fiorentina. Un verso cui Sabrina Mezzaqui, con la sua inconfondibile prassi di “scrittura”, fa eco attraverso una delle sue innumerevoli tecniche artistiche, tessendolo sulle trame di fili, che da vicino ricordano quelli di un telaio, custoditi all’interno di una minimale cornice. Le uniche costanti del lavoro dell’artista sono, infatti, le tematiche intorno alle quali ruota il suo intero lavoro, invero le tecniche sono varie e diverse.
Mentre il tempo e la sua sospensione, la leggerezza, la performativa ripetitività quasi zen, si rintracciano in tutti i suoi lavori, le tecniche, come i materiali, spaziano dal video al ricamo, dal disegno all’installazione, dalla carta al bronzo. Ammirando in contemporanea le due mostre in corso nella capitale, una quella già citata, l’altra allestita per una manciata di giorni (dal 17 al 29 novembre), sempre a cura della Galleria Continua, nella piccola chiesa sconsacrata di Santa Rita, con agio si colgono questi diversi tratti e differenti pratiche. Perché “Bianco naturale”, la mostra nella Sala Santa Rita, è una suggestiva installazione che unisce vari elementi, a partire dalla sua stessa realizzazione. È, infatti, il risultato di un’opera collettiva, corale, nata da un laboratorio che l’artista ha svolto durante un seminario titolato Meditazione delle mani. Un gruppo di persone, lavorando in silenzio, hanno collaborato a realizzare la lunga “collana”, contenuta e adagiata in una sorta di vaso, la cui forma evoca un uovo, posto al centro della Sala. Per mezzo di una illuminazione mirata e centrata, pressoché teatrale, sono stati, quindi, enfatizzati non solo il lavoro nel suo insieme, ma anche accentuato il candore dell’intera installazione e del materiale utilizzato. Bianco naturale è il nome di un tipo di carta, usato con una certa frequenza dall’artista come materiale prediletto, impiegato anche in quest’occasione, per le sue qualità, il cui nome esercita una certa fascinazione nell’artista stessa. Così, anche la ceramica del vaso nonché la polvere di gesso, accuratamente spolverata sul pavimento, come un leggero e pressoché impercettibile mandala, sono bianchi. Il tutto, però, è un bianco caldo che non si pone in contrasto col luogo, con la primigenia sacralità della Sala. Quella sacralità altresì ritrovata nella forma circolare della pianta di Santa Rita e per questo finemente riproposta, o meglio doppiata, nel cerchio impermanente realizzato con la polvere. Quell’impalpabile leggerezza peculiare dell’installazione sonora Impatient of the fewest words del St. Regis che, all’ingresso, accoglie il visitatore e, nella quale, la calibrata e accogliente voce di Elisa Biagini, scandisce i versi di una raccolta di dialoghi immaginari tra Emily Dickinson e Paul Celan.
E così, l’incontro casuale tra Mezzaqui e Biagini, ha dato corpo a questa personale in cui la parola è centrale a tutta l’esposizione, e le immagini e le parole si compenetrano e si fondono, divenendo quei rami in grado di sostenerci qualora l’asse dovesse cedere, quelle solide parole-ramo sarebbero capaci di confortare e sorreggere. Come per la mostra sopra descritta, anche qui gli elementi esposti sono l’approdo di un percorso più ampio e corale. Niente si perde, tutto affiora è composta da 26 cornici di ottone che delicatamente accolgono e accudiscono dei tenui rametti infiorati di carta, che evocano il suggestivo hanami giapponese dei sakura. Rametti, con innesti di materiali diversi quali stoffe, realizzati durante un workshop condotto, nel 2019, nel corso di una residenza sul tema Della morte e del morire nella Tenuta Dello Scompiglio (Vorno – LU) cui Sabrina Mezzaqui ha preso parte. Quegli stessi rami, quasi eterei quanto delicati, sembrano acquistare consistenza, corporeità, in c’è qui nell’aria la parola-ramo. L’installazione, anche il titolo della mostra, come da contraltare, occupa la parete opposta, librandosi per ogni dove, superandone il perimetro per invadere anche quella di fianco, sopra la grande finestra. Dei rami di bronzo, calchi di quelli raccolti a Lo Scompiglio, sono il sostegno a degli uccellini le cui zampine sono reali rametti di legno, in un inaspettato connubio fra materiali diversi, in una sorta di lenta trasformazione dall’animato, vitale legno, all’inanimato, inerte bronzo. L’ampio respiro delle due installazioni crea un’atmosfera leggera e impalpabile, in cui il tempo (di nuovo) sembra sospendere il suo inesorabile incedere. Non temendo l’horror vacui, Sabrina Mezzaqui conferisce al vuoto il ruolo di esaltare, e mettere in maggior rilievo, i singoli elementi, o meglio, le singole parole, in una lenta e paziente tessitura.
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