Fino al 1 luglio la galleria Riccardo Costantini contemporary ospita una mostra personale di Saverio Todaro dal titolo “Reel”. La mostra, primo vero e proprio evento espositivo dopo la collettiva che ha inaugurato il nuovo spazio di via Goito della galleria di Costantini, si presenta come una riflessione sul tema dei social network e soprattutto sul modo in cui questi influiscono sul nostro modo di percepire noi stessi, il nostro mondo, le nostre idee e ideali, insomma su tutto ciò che costituisce la nostra stessa identità .
Il titolo evoca, infatti, quei video di brevissima durata trasmessi in loop su social come Facebook o Instagram che tutti noi conosciamo. La parola reel indica in inglese la bobina o il rocchetto di filo che si srotola per poi riarrotolarsi su se stesso, e viene utilizzata sui social di Meta per indicare proprio il formato tipico e il movimento in loop del video, che continua a ripetersi sempre, potenzialmente all’infinito.
La riflessione di Todaro prende le mosse a partire da un antico testo di Boetie dove l’argomento in questione è la schiavitù volontaria nella quale l’essere umano, in diverse situazioni esistenziali, tende per sua natura troppo spesso ad invischiarsi. Le opere in mostra, che si esplicano in una quantità differente di formati e mezzi espressivi che vanno dalla scultura al carboncino, fino allo stendardo, al murales fino a vari elementi installativi, si qualificano come altrettante possibili interpretazioni del modo in cui le funzioni relazionali e gli schemi percettivi che entrano in gioco utilizzando i grandi colossi del web influenzano il nostro modo di stare al mondo e la nostra identità personale, financo nella percezione che noi abbiamo di noi stessi.
Così, se il logo di Instagram si pone su uno stendardo che evoca il terzo Reich, quello di Google campeggia, sebbene rivisitato, come un gigantesco graffito sulla parete di una delle sale espositive. Cornici di di varie dimensioni, anche molto piccole, ricoprono invece un’altra parete e contengono al loro interno figurine simili alle immagini delle foto profilo non ancora riempite degli account di Facebook o Instagram adornate però di oggetti e simboli tra loro diversi, a simulare le foto dei social e la varia umanità che queste rappresentano.
Ogni stanza ha, poi, a parete una sua piccola sentinella, rappresentata da un disegno a carboncino eseguito con una perfezione quasi fotografica su un fondo scuro, sul quale campeggia un simbolo simile a quello del buffering, ossia la ruota raggiata che compare sui siti web che stentano a scaricare i propri contenuti. In una stanza il volto a carboncino rappresenta il filosofo Michel Foucault, in un’altra la sentinella è invece la statua di un antico soldato cinese, ad evocare un noto libro sull’arte della guerra, curioso esempio di classico zen diventato negli anni un must del marketing.
In un’altra sala, forse quella di maggiore impatto, campeggia invece una scultura dall’aspetto inquietante. Si tratta di un cavallo di frisia, ovvero uno di quegli oggetti che fino a poco tempo fa qualcuno di noi non aveva mai visto in tutta la sua vita, che si pongono però in tempo di guerra in alcuni luoghi che vogliono essere preservati dall’ingresso dei carri armati invasori. In questo caso, il cavallo di frisia non si regge in piedi ma è tenuto su artificialmente da un filo rigido posso sulla parete ad esso opposta, e che lo tira al modo delle redini di un vero cavallo.
Accanto alla mostra di Saverio Todaro, la galleria ospita anche, nella project room, una piccola ma ironica mostra di Luigi Fresia, con un paio di opere fotografiche in cui il testo e l’immagine interagiscono dialetticamente.
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