Passeggiando per Piazza Navona, in questi giorni di fine estate, ed entrando nel secentesco Palazzo Pamphilj, ci si ritrova catapultati in un piccolo angolo di Brasile contemporaneo. Si tratta della mostra “Brasil!”, organizzata dall’Ambasciata del Brasile per riaprire le attività espositive interrotte causa pandemia, in sinergia con il collezionista napoletano Ernesto Esposito e la sua storica collezione.
Nonostante l’eterogeneità di stili e mezzi praticati dagli artisti rappresentati in mostra – tutti nomi celebri, da Ernesto Neto a Vik Muniz – il gruppo di opere resta in perfetto equilibrio senza che nessun lavoro sovrasti gli altri, nonostante il piccolo spazio a disposizione, grazie alla capace curatela di Elsa Ravazzolo Botner, direttrice della galleria A Gentil Carioca di Rio de Janeiro. Ed è proprio dall’area di Rio de Janeiro che provengono quasi tutti i diciassette artisti esposti, le cui opere sono state pazientemente ricercate e acquistate da Esposito nel corso di vent’anni, quasi tracciando una mappa di affinità elettive tra napoletanità e brasilianità.
E comunque la brasilianità emerge potente da questa piccola mostra, a partire dalla ipnotica Azulejão (voluta) (2016) di Adriana Varejão, sorta di incontro ideale tra i cretti di Burri, gli umori barocchi latini e gli azulejos, così gravidi di implicazioni storiche nel loro essere un portato della colonizzazione portoghese, ma naturalmente assimilati alla cultura locale brasiliana.
È un Brasile in cui O Estrangeiro IV di Arjan Martins – ci sarebbe poi da riflettere su quanto “straniero” possa essere una delle parole chiave per interpretare questo primo XXI secolo in cui stiamo vivendo – convive con l’estetica ultrapop del collettivo assume vivid astro focus, le cui immagini digitali possono essere acquistate, per vivere l’esistenza che il proprietario deciderà per loro, scegliendo regole, tempi e mezzi della loro fruizione.
Molti dei materiali utilizzati sono tessuti o materiali poveri, di riciclo, anche industriali, come nel caso di Pintura Elástica di Jarbas Lopes, o nelle reinterpretazioni di manufatti elettronici – vecchi altoparlanti, un amplificatore – del collettivo Chelpa Ferro, o nella scultura quasi minimalista di cemento e griglie di scarico Topografia evasiva di Renata Lucas. Che poi anche Muniz ha usato spesso e volentieri i materiali più vari – persino rifiuti – per “ridipingere” capolavori della pittura occidentale, e poi fotografarli: in mostra è esposta la sua versione di un’Attesa di Lucio Fontana, ricostruita attraverso strati di pigmento, depositati uno dopo l’altro.
Anche la pittura di Maxwell Alexandre, con scene di vita quotidiana in favela, viene stesa di volta in volta su tela, latex, cera, porte in legno (come nel caso del dipinto in mostra), telai in alluminio etc., all’insegna di una sorta di estetica del riuso – e vengono in mente le immagini delle sterminate discariche a ridosso delle favelas – che potrebbe essere la via per attraversare sani e salvi una possibile epoca post-consumista.
In definitiva, le opere brasiliane della collezione Esposito tendono a restituire l’immagine di un Brasile multiforme, perennemente sospeso tra il futuro e i problemi ereditati dal proprio travagliato passato – di cui vediamo oggi gli effetti nelle tensioni sociali, nella disparità economica, nella volatilizzazione della foresta amazzonica – e consapevole che il modo di rapportarsi con questi problemi oggi, deciderà anche la direzione del proprio domani. Consapevolezza che dovremmo acquistare tutti noi, perché è oggi che si decide quanto e se il nostro futuro assomiglierà a quello immaginato in Brasil! di Terry Gilliam, da cui questa mostra prende il titolo.
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