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Scottante senza scottarsi: Mark Dion a Palazzo Cambiaso
Arte contemporanea
Noi: «It’s a joke?». Mark Dion (New Bedford, 1961): «Oh yes». Ogni volta sembra che Dion scherzi col fuoco di una realtà scomoda. Ma essere scottante senza scottarsi non è forse una virtù?
Una precisazione che tornerà utile: Dion nasce biologo, poi diventa artista con un salto di specie. Ha un fare tranquillo, e insieme a lui ci si diverte a commentare le tavole che illustrano classificazioni assurde, tipo How to build a better bird mettendoci tanti nomi di peso della cultura internazionale, da Carla Lonzi ad Hannah Arendt, da Walter Benjamin a Giorgio Agamben. In quella che definisce «Semplicità abbinata alla complessità» delle sue produzioni, Dion è micidiale. Pacioso nell’aspetto, un carrarmato nell’osservare la società contemporanea, evidenziando qua e là atteggiamenti maturati come riflessi incondizionati.
Sembra di tornare in classe. Una suggestione data dal fatto che, delle tre sale occupate da Pinksummer all’interno di Palazzo Pallavicino Cambiaso, quella foderata di tavole tassonomiche pare il più tipico dei gabinetti di scienze. Le tavole bianche poi sono pure tempestate di macchie, prova di un tempo passato abile nel restituire valore al contenuto. O piuttosto prova di quanto la manipolazione incanali verso una mala interpretazione della realtà, e che l’unico “valore” sia – nozione appresa da Antonella Berruti di Pinksummer – aver utilizzato quelle tavole tipo tovaglie, su cui prendere tè o caffè. Dion l’ha fatto, restituendo peraltro il tempo come un concetto anche più arbitrario della tassonomia.
La razza e il rifiuto: una lezione da imparare
Si torna in classe dicevamo, ma non è solo suggestione. La lezione infatti è impartita per intermediazione di domande subdolamente infiltratesi nella testa, quando la tassonomia che traccia How to build a better bird rende tutto non solo divertente, ma better. Quali presupposti determinano un “migliore”? E “migliore” rispetto a? Interrogativi che bruciano sulle ferite croniche della società di ieri, oggi e domani chissà. Trasversali all’Italia sfacciata delle leggi razziali del 1938, come a quella del 2021, dove i “migliori” sgambettano in un sottobosco di finto buonismo. Riso amaro, decisamente.
Nella stessa sala una cariola. È carica, carica di: rifiuti. C’è di tutto, sembra quasi una di quelle sculture a parete di Tony Cragg prima che Tony Cragg c’abbia messo mano. Che tutta quella roba sia stata raccolta sulla costa genovese – grazie all’aiuto di The Black Bag e Genova Cleaners – da la misura site specific del progetto totale, affondando le radici anche sull’affinità sottolineata dall’artista tra la sua città natale nel Massachusetts e il capoluogo ligure. Una similitudine tra luoghi portuali alle prese con un globalizzato inquinamento dei mari: se un mozzicone di sigaretta ci mette da 1 a 5 anni per essere smaltito, l’informazione tracciata da Dion è univoca, al di qua o al di là dell’oceano.
L’imprinting da biologo è evidente. Per un ulteriore prova c’è un mobile prodotto in loco, da un ebanista di Savignone, provincia di Genova. È solo e piantato in mezzo al salone centrale. Sembra le riedizione ad ante di uno stipo rinascimentale, merito forse di quel gabbiano ad intarsio nel mezzo. Un contenitore che non surclassa il contenuto, dodici barattoli in cui Dion ha classificato molti dei pezzi/rifiuti raccolti: mollette, parti di corrugati, accendini e via discorrendo. Tutto così abilmente calcolato, con un contenuto a sua volta in frizione irreversibile quando dal mobile quei rifiuti si sversano tra i paesaggi ameni affrescati nel salone.
Dion li ha classificati da uomo di scienza; li ha restituiti nell’iconicità che solo un artista può afferrare, compresa nello sporco che restituisce la percezione transeunte del rifiuto. E unendo queste due anime dà da riflettere. All’uscita ci sarà qualche mea culpa?