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Il direttore del Centre d’Art Contemporain di Ginevra, Andrea Bellini, racconta la genesi della mostra “Scrivere Disegnando”, inaugurata il 29 gennaio e prorogata sino al 23 agosto, soffermandosi sull’analisi della relazione tra parola e immagine in una prospettiva antropologica, tecnologica e di genere.
Una mostra che, parafrasando Giorgio Agamben – si legge nelle intenzioni – mette in scena opere dove l’atto della scrittura riguarda più il “cercare di dire” che il “dire” stesso, più sulle potenzialità del significato che sul significato. È la scrittura che ha trasceso la comunicazione, diventando una traccia dell’esistenza e dell’affermazione di sé, ma anche un elemento di fantasia, una metafora della trama misteriosa del mondo. Primo progetto di collaborazione tra la Collection de l’Art Brut di Losanna e un’istituzione di arte contemporanea, questa mostra riunisce una vasta gamma di “personalità”: artisti “outsider” e “ufficiali”, alcuni dei quali hanno avuto un ruolo chiave nei movimenti d’avanguardia e nelle neo-avanguardie del XX secolo.
Partiamo dalla macroarea di indagine della mostra: il rapporto tra parola e immagine. “Scrivere Disegnando” affronta questa relazione soffermandosi sulla condizione di primigenia unità di questi due linguaggi, da ricercarsi nella nozione di “segno”, concetto in cui convergono coordinate antropologiche fondamentali. Quale ritiene che sia la rilevanza di questo tema nella ricerca artistica contemporanea?
«Il ritorno della parola e della scrittura è un tema di grandissima attualità. Se penso oggi alle personalità più interessanti nel mondo dell’arte, mi vengono in mente artisti che si esprimono soprattutto con la parola, o con l’associazione di parola e immagine. Mi fa piacere dire che si tratta soprattutto di artiste donne. Penso a Hito Steyerl, Hannah Black, Aria Dean; insomma, mi sembra che in generale le donne abbiano più cose da dire in questo momento, ed è una cosa importante da registrare. Scrivere significa tentare di comprendere il mondo circostante, ma innanzitutto comprendere sé stessi. È sempre un gesto di resistenza, manifestazione di una volontà di complessità. Non a caso, la semplificazione del linguaggio porta con sé inevitabilmente la semplificazione del pensiero».
Può raccontarci la genesi della mostra “Scrivere Disegnando”?
«La mostra porta avanti una nostra linea di ricerca dedicata al tema della parola nelle arti visive, avviatasi nel 2017 con la mostra “From Concrete to Liquid. To Spoken Worlds to the Word”. Il concept di “Scrivere Disegnando” è stato proposto su mia iniziativa a Sarah Lombardi, direttrice del Musée de l’Art Brut di Losanna, la più importante collezione dedicata all’Art Brut sviluppatasi dal nucleo originario della collezione di Jean Dubuffet. Abbiamo deciso di partire dalla scrittura come esigenza antropologica antica, riconoscendola come un tema che potesse mettere in relazione gli artisti “ufficiali” e gli outsider in modo né semplicistico né strumentale. Siamo partiti dal materiale della Collection de l’Art Brut, individuando in un secondo momento le personalità da affiancare a questo primo nucleo, coinvolgendo in totale oltre cento artisti. Abbiamo voluto soffermarci su un’idea di scrittura come non-scrittura. Una scrittura che vada oltre il suo consueto contenuto semantico, aprendo ad un suo altrove».
Nel suo testo critico parla di una mostra dedicata alla scrittura in cui, paradossalmente, non c’è quasi nulla da leggere. Dietro a questa suggestione si manifesta chiaramente la volontà della mostra di contribuire alla messa in discussione del paradigma occidentale che collega il momento della scrittura a quello della lettura, il quale preclude, ad esempio, una possibilità percettiva prettamente visiva. L’arbitrarietà di questa relazione è messa in luce significativamente da Walter Ong, il quale analizza come, in effetti, solo una minima percentuale delle lingue parlate abbia prodotto una letteratura.
«Devo dire che si sono aperte diverse problematiche in questo senso: penso alla questione del rapporto tra linguaggio, scrittura e potere e alla questione di genere. Per cinquemila anni le donne non hanno avuto accesso all’alfabetizzazione. Il rapporto della donna con la scrittura è sempre stato relegato alla dimensione dell’irrazionale: si pensi alle medium, alle streghe, alle mistiche. Quella degli uomini era invece la lingua razionale, della scienza e del potere. L’influenza della società patriarcale è emersa con molta forza nel corso delle nostre ricerche. È stato interessante osservare come, all’inizio o nella prima metà del Novecento, donne come Irma Blank e Hanne Darboven si sono appropriate della scrittura in termini di negazione. Scrivere, dunque, per porre in essere un primigenio impulso antropologico, ma al tempo stesso per contestare le strutture culturali collegate alla scrittura stessa».
Un altro aspetto fondamentale sono le prospettive aperte dalle nuove tecnologie nell’ambito della scrittura. Nella sua dimensione “tecnologica”, la parola si trova infatti strettamente vincolata ad una dimensione visiva, recuperando un’unità con l’immagine proprio a partire dall’unità visiva minima del pixel. Quali ritiene possano essere gli sviluppi in questo senso?
«A questo proposito, nel catalogo è riportata una conversazione tra me e Hans Ulrich Obrist: il suo profilo Instagram è una grande collezione di post-it scritti a mano, dunque ho pensato che sarebbe stato interessante invitarlo a discorrere sul tema. Secondo lui, le nuove tecnologie potrebbero portare alla fine della scrittura e della calligrafia, ed è necessario battersi per contrastare questa scomparsa. La mostra pone degli interrogativi anche in questo senso: assisteremo all’eclisse della calligrafia? Siamo di fronte all’ennesimo genocidio culturale? In ogni caso, il rapporto tra scrittura e tecnologie è un tema su cui stiamo lavorando proprio in questi mesi. Qui a Ginevra, Jean Nouvel ha progettato cinque nuove stazioni per treni e metropolitane. Mi è stato chiesto di pensare a un progetto artistico apposito per attivare lo spazio pubblico. Ho scelto di non proporre opere scultoree inamovibili e centripete, ma piuttosto delle immagini in movimento, interrogando anche le possibilità della scrittura».