Le porte di Galerie Berthet–Aittouarès, in Rue De Seine a Parigi, si aprono per mostrarci le suggestive sculture di Daniel Pontoreau. Sculptures è la grande retrospettiva organizzata da Michèle e Odile Aittouarès, raccoglie le ceramiche del maestro francese trasformando la loro galleria parigina in un teatro minerale. Daniel Pontoreau, nato a Parigi nel 1947, incontra nel 1968 la collezionista Monique Fausto che lo incoraggia a proseguire la sua ricerca artistica; dopo qualche anno sue opere vengono esposte in importanti istituzioni parigine, tra cui il Salon de Mai, il Salon des Réalités Nouvelles e le Jeune Sculpture. Era il 1971. Un anno dopo vince lo Special Prize alla Biennal Ceramics di Vallauris. Agli inizi degli anni ’80 accompagna la coreografa Kilina Cremona a New York e Montreal e nei primi 2000 inizia a esporre in prestigiose gallerie giapponesi a Kyoto, Nishinomya. Necessaria a descrivere al meglio la fama internazionale del nostro interlocutore, dopo questa sequela di nomi e date lasciamo che siano le parole dell’artista a raccontarci Sculptures, inaugurata da Berthet–Aittouarès il 24 maggio e in mostra fino al 29 giugno 2024.
Nel suo percorso artistico, più che trentennale, possiamo dire che è stato ispirato, o più in generale legato, ai grandi artisti dell’Arte Povera e della scultura britannica. Quali di questi può definire i suoi maestri? E perché?
«Il mio interesse per la scultura britannica risiede nella varietà dei mezzi di ricerca. La tradizione scultorea britannica non usa molto la terracotta mentre gli artisti dell’Arte Povera la prediligono, sia perché non è un materiale così raro e nobile, e quindi in linea con la filosofia del movimento, e sia perché è storicamente radicata nella tradizione artistica italiana. Credo che gli artisti abbiano diversi assi di ricerca a seconda del loro Paese di origine. La ricerca artistica va in molte direzioni. Non mi sono ispirato a nessun artista in particolare; ad ispirarmi diciamo che è stato più il movimento globale di quel periodo storico. Noi appartenevamo alla stessa generazione di artisti che incarnavano una rottura nella tradizione scultorea».
Come sono nate le opere in mostra? Sono state concepite per essere esposte da Berthet – Aittouares?
«Le opere che presento in questa mostra non sono state create appositamente per essa. Odile, Michèle (rispettivamente la direttrice e la fondatrice della galleria) e io le abbiamo scelte appositamente per questo spazio. Ho trovato un punto di articolazione che provoca una visione globale della mostra. Il modo in cui organizzo le mie opere porta a un movimento da parte dello spettatore, che non rimane fisso su un solo lavoro. Le mie opere non sono tagliate fuori dal resto e lo spettatore va avanti e indietro tra di esse, mentre loro, rimanendo ferme, si fondono con lo spazio che le circonda. La mia specialità è provocare un cambiamento nel percorso di un luogo reale».
Potremmo definire il suo processo creativo meravigliosamente intimo. Quanto conta il primo approccio alla materia grezza nella realizzazione dell’opera finale?
«La materia prima è molto importante in alcune delle mie opere finali. Sono fatte di elementi naturali. Su alcune sculture, aggiungo pezzi di argilla che ho estratto dalla cava e li cuocio, ma non li tocco. Il materiale è grezzo. Aggiungo sensibilità al materiale lavorando e trasformando altri aspetti dell’opera in modo spontaneo. È una sottigliezza, il trattamento delle opere. [Pontureau ci mostra a questo punto un grande cilindro con due pietre diverse sulla sommità disposte come una piccola scena teatrale di un confronto tra due forme estranee che cercano di comunicare]. Come vede, le mie opere d’arte sono la messa in scena di un teatro minerale. È la scena di un teatro composto da elementi minerali. La componente umana è molto presente nel modo in cui creo le mie opere. Il lavoro dell’argilla è diretto, con un impatto fisico molto forte, al quale infine aggiungo elementi sottili e delicati».
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