“Ma tu Rimani” è stata la mostra personale dell’artista tarantino Lorenzo Montinaro (1997) tenutasi presso lo spazio indipendente Casa Vuota di Roma, a cura di Sabino de Nichilo e Francesco Paolo Del Re. Guardando a un espediente linguistico culturalmente connotato nella cultura occidentale, quello della scrittura epigrafica, l’artista ha organizzato la griglia espositiva attraverso un sistema di rimandi tra due serie principali: le Rovine e il Canzoniere della Morte.
Pur condividendo connotati e intenti comuni, le due serie si sono differenziate per metodologia estrattiva: nella prima, Montinaro erode i residui verbali impressi sulle lapidi di risulta in un processo di scrittura sottrattiva, mentre nell’altra si trova a comporre testi poetici inediti che vengono incisi ex novo sulle lastre marmoree. Ulteriori elementi installativi e scultorei, tra cui una scaffalatura colma di candele consumate e un santino con una foto che ritrae l’artista da bambino, hanno completato l’allestimento nell’appartamento dismesso del Quadraro.
La serie delle Rovine, in questo contesto, ha presentato una più complessa e coerente stratificazione semiotica, plastica e metodologica, che si è tratteggiata a partire dall’inizio del processo, con il reperimento delle lapidi destinate allo smaltimento, fino alla cancellazione meccanica di parte delle lettere. In alcune opere, l’artista ha utilizzato un sistema di specchi scuri per integrare i contorni irregolari dei frammenti lapidei, o ancora per estenderne la profondità attraverso un sistema di riflessi.
Si potrebbero definire, queste, le più esplicite spazializzazioni di un vuoto-abisso che è referente formale e concettuale pivotale nella ricerca dell’artista. In questa cornice, il gesto sottrattivo della cancellazione ha assunto il significato di un tentativo salvifico o piuttosto di un reiterato accanimento, ostinazione avversa alla fluida disgregazione della memoria e della materia. L’occultamento dei nomi e delle identità dei defunti è apparsa qui un sacrificio per la riconciliazione con il materiale di partenza, evocando la sua plasmabilità come oggetto poetico.
È forse in questo passaggio che si è compiuto lo scarto processuale più significativo, poiché questo “sacrificio materiale” si è tradotto nel depotenziamento della portata monumentale delle lastre marmoree, scavallando l’ingombranza insidiosa del materiale di partenza e portando la struttura linguistica a non soccombere sotto il suo peso simbolico. Le lapidi sono risultate declassate a supporto temporaneo, brandelli di carta, costellazioni di appunti dimenticati. Accolte dall’intimità dell’appartamento, le lapidi hanno terminato così la loro parabola di transizione da oggetti ostensori a preghiere minime, appunti privati che si consumano nella durata di una sillaba.
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