Si chiama Roberto Alfano. È nato il 30 luglio 1981 in una piccola località del Basso Lodigiano (ai tempi in provincia di Milano, oggi di Lodi). È un artista prevalentemente interessato alla ricerca artistica in funzione della libertà di espressione e in relazione al contesto educativo e didattico, nello specifico quello del “disagio” psico-fisico e sociale.
Si è avvicinato all’arte contemporanea nella prima adolescenza con la scoperta di ciò che oggi è evoluto nei limiti del termine “arte urbana”. Questo incontro lo ha avvicinato a un habitat ricco di stimoli creativi che lo ha portato a frequentare l’Accademia di Belle Arti di Brera e, successivamente, a interessarsi di psicologia, filosofia, antropologia, sociologia e scienze della formazione.
I suoi riferimenti (in adolescenza) sono stati prevalente i graffiti degli anni novanta e della vecchia scuola newyorkese, il post-impressionismo e la transavanguardia italiana. Di conseguenza, influenzato da questi riferimenti, l’artista lodigiano si è formato e affermato esplorando oltre i limiti della tecnica, cercando di portare nel contesto urbano un segno estremamente istintivo e spontaneo (trattando temi provocatori, quali la sessualità esplicita, il disagio psichico e l’eccesso in generale) che, negli anni, ha influenzato profondamente la sua ricerca artistica nell’ambito del contemporaneo e che lo ha avvicinato al lavoro nel contesto sociale.
Perché hai sentito l’esigenza di estendere la tua ricerca dall’arte urbana ad altri ambiti?
«Non è stata esattamente un’esigenza, ma il naturale corso degli eventi. Continuo a mantenere un forte interesse e legame rispetto al lavoro nel contesto urbano, soprattutto in relazione al lavoro socio-educativo con gruppi di persone».
Quando è avvenuto questo passaggio e come si è articolato?
«C’è stata una lenta metamorfosi da un’idea totalmente autoreferenziale a un approccio comunitario. Di conseguenza, negli ultimi anni ho avuto modo di approfondire parallelamente la ricerca artistica in studio e nel contesto urbano, che nel tempo si è evoluta in un’accezione più di interesse sociologico. Questa evoluzione è avvenuta poco prima del 2008, quando ho iniziato ad approfondire l’interesse per il contesto socio-educativo e didattico. Da qui ha avuto inizio un percorso di formazione trasversale che mi ha portato negli ultimi anni a teorizzare un approccio in ambito laboratoriale che ho definito “Arte Contemporanea Generativa”».
Quali sono gli artisti dell’arte non urbana o quali sono stati gli incontri che ti hanno ispirato in questo percorso di sviluppo dall’arte urbana?
«Ho sempre provato molta fascinazione per alcuni grandi maestri della pittura francese del novecento, per l’espressionismo e i Fauves. A questi riferimenti di formazione sono da aggiungere buona parte dell’arte cosiddetta non-istituzionale, non solo intesa come Art Brut, ma in un’accezione più ampia, che comprende anche tutto il lavoro svolto negli anni in ambito laboratoriale, che si è rivelato essenziale per la ricerca in studio».
Quali linguaggi hai scelto (pittura, installazione, performance, scultura, ecc.)?
«Generalmente prediligo la pittura, la scultura e il disegno, ma nel tempo ho avuto modo di esplorare buona parte dei linguaggi del contemporaneo, tra cui installazione, multimedia, illustrazione, animazione, performance, ecc.».
Ci puoi citare e descrivere le opere o i cicli di opere più significativi di questa estensione del tuo percorso?
«Non ci sono opere specifiche che hanno determinato questo passaggio, quanto invece momenti e situazioni. In ogni caso potrei identificare i seguenti momenti focali: 2015, anno in cui ho scelto di tornare a relazionarmi con le gallerie e il mercato del contemporaneo in generale; 2017, anno in cui ho definito il metodo “Arte Contemporanea Generativa”. Prima di questi due momenti specifici, ho sempre svolto un intenso lavoro di ricerca e formazione».
In cosa consiste il tuo metodo “Arte Contemporanea Generativa”?
«In sintesi, l’approccio metodologico che definisco Arte Contemporanea Generativa può essere descritto come la pratica delle discipline artistiche, tramite l’utilizzo di tecniche e linguaggi interdipendenti, finalizzata alla rivelazione e alla generazione di autonomie. Un percorso d’apprendimento basato sull’esperienza
diretta e strutturato al fine di pensare, progettare e creare facilitando il processo creativo, che nel contesto laboratoriale è veicolo espressivo e quindi relazionale».
Quali cambiamenti ha comportato in lavoro in studio rispetto a quello in strada?
«I lavori che negli anni ho realizzato in strada mi hanno portato ad approcciarmi alla dimensione del grande formato, facilitandomi nello scardinare alcune inibizioni nella pratica pittorica. Grazie al lavoro in studio, invece, ho avuto modo di sviscerare (spesso in modo abissale) alcuni contenuti della mia storia personale, in un percorso “intimista” che si è rivelato fondamentale per maturare consapevolezza. Questo mi ha portato a sviluppare un’ampia apertura rispetto alla pratica dell’arte che mi permette di essere un artista eclettico/trasversale e fluido».
Come descriveresti la tua pratica odierna?
«Attualmente (e da qualche anno), la mia pratica artistica si concentra prevalentemente sulla manifestazione della libertà d’espressione, intesa come strumento di resistenza culturale o controcultura. I temi focali (ricorrenti) sono la narrazione delle memorie del territorio in cui sono cresciuto, vari contenuti emotivi (con un presupposto di autoanalisi), la spiritualità e le dinamiche disfunzionali e contraddittorie della società contemporanea. Tutto ciò comprende un’ampia sperimentazione tecnica rispetto a supporti e materiali. Il tema della libertà d’espressione si presenta anche nella ricerca nell’ambito socio-educativo e didattico, che parte dal presupposto che non può esserci contemporaneità estranea al concetto di interdipendenza».
Ci puoi spiegare nello specifico cosa intendi per interdipendenza collegata alla contemporaneità?
«L’interdipendenza nel contesto dell’arte contemporanea è l’utilizzo di tecniche e linguaggi connessi tra loro in un rapporto di reciproca dipendenza. Questo rapporto tra tecniche e linguaggi differenti ha la funzione di ampliare le soluzioni comunicative nell’ambito dell’espressione artistica. In una società/comunità invece l’interdipendenza è da intendersi come uno scambio relazionale finalizzato a dinamiche inclusive o generative, dove il ruolo dell’individuo è funzionale ed essenziale al gruppo, viceversa, l’esistenza di un gruppo di riferimento è fondamentale per la crescita dell’individuo. Queste due varianti del concetto d’interdipendenza convivono nell’ambito dell’Arte Contemporanea Generativa innanzitutto a partire dalla definizione di arte contemporanea, in relazione al rapporto di dipendenza tra tecniche e linguaggi».
Qual è il fil rouge che collega la tua attuale ricerca con quella di partenza nell’arte urbana?
«Indubbiamente l’approccio istintivo è ciò che intercorre tra il dualismo strada-studio. In ambito laboratoriale, il fil rouge corrisponde al senso di appartenenza. Lavorare in strada con le comunità locali rafforza il legame con il territorio e la consapevolezza del territorio stesso. Questo riporta alle origini del mio percorso, quando realizzavo i primi graffiti per le strade isolate di un piccolo paese del Basso Lodigiano e sentivo che quel luogo e quegli spazi mi appartenevano e che avrei voluto essere partecipe attivamente ai cambiamenti del territorio invece di subirli».
Cosa è rimasto dell’arte urbana da un punto di vista tematico e da un punto di vista tecnico?
«Rispetto ai temi, ciò che attualmente porto in strada ha sempre un’affinità stretta con la ricerca pittorica in studio, le differenze sostanziali sono supporto e contesto. Quindi il lavoro in strada è un’appendice della ricerca pittorica. Tecnicamente invece mi capita di utilizzare spray, marker, rulli e materiali usualmente più comuni nel lavoro in esterno».
Cosa hai lasciato della ricerca precedente?
«Non credo di avere lasciato o rinunciato, ma semplicemente di avere integrato competenze e conoscenze e rielaborato contenuti. È stata un’evoluzione. Rispetto alla ricerca artistica, lavoro in modo trasversale e fluido con vari materiali, tecniche e supporti. Ultimamente sto sperimentando molto con supporti che derivano da scarti (riuso/riciclo) e materiali che sono presenti nel territorio in cui vivo (prevalentemente argilla e altre terre). Rispetto al contesto educativo, lo strumento imprescindibile è la relazione».
In quale direzione stai andando?
«Nel corso degli anni ho sviluppato un approccio sempre più consapevole rispetto alla mia indole. Provo un bisogno viscerale e quasi ossessivo di dipingere e fare scultura. Questa necessità ormai fisiologica, arricchisce di sensatezza il mio lavoro anche quando è prettamente autoreferenziale. Questa consapevolezza mi ha avvicinato al tema della lentezza, del rispetto dei tempi delle evoluzione delle cose. La pratica artistica è quindi un esercizio di lettura e di interpretazione della realtà. Esercizio che può essere visionario, terapeutico o di autoanalisi. A partire da questi presupposti, la mia ricerca si apre agli altri, diventando prima inclusiva e comunitaria e, infine, generativa. La mia ricerca va in questa direzione, in un universo di universi interconnessi».
In questo ambito cosa rappresenta per te e che tipo di racconto propone al pubblico la tua personale in corso a Milano da ArtNoble gallery, dal titolo “Miraggio inferiore”?
«”Miraggio Inferiore” rappresenta innanzitutto l’inizio di nuovo percorso di ricerca e progettazione. Buona parte dei lavori esposti sono frutto di un dialogo intenso e continuativo tra Piergiorgio Caserini (curatore della mostra), Matthew Noble (fondatore della galleria ArtNoble) e il sottoscritto. Scambio che ci ha portato a definire un impianto espositivo finalizzato ad una narrazione che tratta contenuti legati alla società contemporanea, al mio territorio d’origine (la Bassa Lodigiana) alla cultura degli anni ’90 e al tema dell’identità in senso ampio. E’ quindi un percorso esperienziale, tramite il quale si sviscerano contenuti e atmosfere».
Ci descriveresti il percorso espositivo?
«L’incipit è il racconto di una giornata di un adolescente della Bassa Lodigiana che uscito per portare a spasso i suoi cani si perde nella nebbia di un pioppeto, che all’improvviso si trasforma in una dimensione onirica (o lisergica) fatta di visioni e incontri surreali. Da qui ha inizio un viaggio che si chiude con una “liberazione catartica” di tutti i contenuti sviscerati lungo il percorso espositivo.
Il viaggio è approfondito in un bellissimo racconto di Piergiorgio Caserini, che è possibile leggere nel catalogo/fanzine che accompagna la mostra».
Cos’è per te oggi veramente contemporaneo?
«Credo che contemporaneo sia innanzitutto il concetto di interdipendenza, spesso sottovalutato nelle sua ampiezza, che si estende dall’attività artistica fino alle evoluzioni più recenti della società contemporanea».
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