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SELPHISH. Arte digitale e società: parla Pau Waelder
Arte contemporanea
Continua la nostra serie di approfondimenti sull’arte digitale, questa settimana con Pau Waelder. Waelder ha fondato la propria carriera sul suo continuo interesse per l’arte contemporanea e digitale, realtà che ha esplorato dalle diverse prospettive di curatore, di critico e di ricercatore accademico. È autore di articoli e di saggi, relatore a simposi e a conferenze, e collobaratore di diverse gallerie internazionali di arte contemporanea.
Quali sfide (e quali opportunità) rappresenta la crisi attuale per i professionisti e i curatori di media art?
La crisi che si sta verificando a livello mondiale, come conseguenza dei lockdown, è duplice: economica e sociale. Dal punto di vista economico, ci sarà una prevedibile carenza di fondi da investire nella produzione delle mostre e un ritardo, laddove non una cancellazione, nell’attivazione delle residenze e nella programmazione delle esposizioni. Alcuni grandi eventi artistici come la Biennale di Venezia, ad esempio, sono già stati rimandati al 2022. Dal punto di vista sociale, le misure di sicurezza per il contenimento della diffusione del Covid-19 possono rappresentare una sfida considerevole a livello logistico e influire negativamente sulle mostre che prevedono la partecipazione dei visitatori e/o la loro interazione con le opere d’arte. I curatori e i professionisti della media art possono, tuttavia, sfruttare le possibilità offerte dalle tecnologie digitali nella concezione, produzione e diffusione di opere d’arte e di mostre. Da diversi decenni ormai, gli artisti hanno creato arte basata sul web, arte virtuale e arte in realtà aumentata, installazioni che reagiscono alla presenza dello spettatore, pezzi sonori geolocalizzati, e così via; i curatori di arte digitale hanno concepito mostre che si svolgono online, in realtà virtuale o che interagiscono con i dispositivi dei visitatori, tutti aspetti che il mondo dell’arte contemporanea tradizionale ha largamente ignorato, quello stesso mondo che ora si affanna per adattarsi a una situazione senza precedenti che costringe a pensare al di là dello spazio fisico della galleria e della concezione delle opere d’arte come oggetti. Due esempi significativi di realtà che si concentrano esclusivamente sui media digitali sono l’Ars Electronica Center di Linz e il VRHAM! Festival di Amburgo. La prima è non solo la sede di uno dei primi festival di media art al mondo, ma è anche un “museo del futuro” e uno spazio per la ricerca e l’innovazione, inoltre, ha recentemente lanciato un programma online (“home delivery”) che include concerti dal vivo, workshop, conferenze e visite guidate, tutte iniziative aperte al pubblico, senza limitazioni. Allo stesso modo, il VRHAM! Festival, specializzato in arte e realtà virtuale, sta adeguando la sua terza edizione alla situazione contingente per permettere di vivere le opere d’arte VR attraverso un’applicazione per smartphone e una piattaforma online.
Quali nuove forme di performance art digitali, arte interattiva, arte generativa e arte partecipativa si stanno sviluppando in un momento in cui i computer sembrano essere diventati l’unico mezzo di connessione con gli altri?
Come ho già detto, gli artisti che lavorano con le tecnologie digitali hanno esplorato le interconnessioni a distanza per decenni. Prendiamo, ad esempio, il lavoro di Paul Sermon, che ha sviluppato ambienti di telepresentazione sin dai primi anni Novanta, prefigurando la realtà attuale in cui la distanza sociale impone che la maggior parte delle nostre interazioni con gli altri si svolga attraverso la videoconferenza. Ci sono molti altri che hanno progettato forme innovative di performance art (Sonia Cillari), arte interattiva (Christa Sommerer e Laurent Mignonneau), arte generativa (Casey Reas), arte partecipativa (Rafael Lozano-Hemmer), per citarne alcuni, e continuano a farlo ancora oggi. Durante il blocco sono stati lanciati nuovi progetti, come Manif.app di Antoine Schmitt, un sito web che permette alle persone di creare e partecipare a dimostrazioni virtuali, o The Smallest Of Worlds – A Social Landscape Of Collected Privacy di Joan Soler-Adillon, Uwe Brunner e Bettina Katja Lange, uno spazio di realtà virtuale in cui i visitatori possono navigare attraverso frammenti 3D-rendered della vita quotidiana degli artisti durante il blocco. Aggiungerei anche progetti curatoriali come la mostra “Selphish. L’exposition de soi”, che ho co-curato con Thierry Fournier per Mécènes du Sud a Montpellier. Gli artisti partecipanti – Lauren McCarthy, Alix Desaubliaux e Martin John Callanan – hanno realizzato opere che utilizzano i post di Instagram di una serie di volontari e che si trasfromano in base ai contenuti che queste persone pubblicano online. La mostra ruota quindi intorno a qualcosa che si svolge altrove, nella vita privata dei partecipanti, resa pubblica attraverso i social media. Il processo in sé non è nuovo, ma utilizzando le tecnologie digitali permette un diverso rapporto tra i visitatori e le opere d’arte, così come tra il contesto della mostra e la nostra vita quotidiana connessa. In conclusione, direi che per la comunità della media art non è cambiato molto, dato che la pandemia non ha portato alla luce nuovi soggetti, piuttosto si è accentuata la rilevanza di quelli che stavano già esplorando questo settore.
In che modo la storia della pratica artistica basata sul web si collega e si relaziona con la situazione attuale?
Nel 1994 The File Room di Antoni Muntadas e The First Collaborative Sentence di Douglas Davis hanno introdotto nel corso dell’arte contemporanea la possibilità di accedere e di interagire con un’opera d’arte da qualsiasi parte del mondo, utilizzando il proprio computer e un browser web. L’arte basata su internet ci ricorda che esistono molti altri modi di relazionarsi online, al di là degli scambi di contenuti su social network come YouTube, Facebook, Instagram, Whatsapp o TikTok, delle competizioni basate sui likes e dei dati che forniamo alle ‘Siren servers’ (come le chiama Jaron Lanier). In tempi di lontananza sociale, il web – spazio aperto, libero, informale – diventa anche spazio di creatività e di speranza. Molto di ciò che si sta sperimentando ora in termini di esposizione dell’arte e di connessione con il pubblico online è stato già esplorato da artisti e curatori in passato. Per coloro che non hanno familiarità con l’arte basata sulla ‘rete’, consiglio di sfogliare la Net Art Anthology di Rhizome, o l’Artport del Whitney Museum. Ciò che si può fare oggi è naturalmente molto più di ciò che si poteva fare trent’anni fa, quindi, se guardiamo alla storia della net art e a come è stata esposta, possiamo trattenere ciò che ha funzionato e andare avanti, invece di re-inventare la ruota provando gli stessi formati già testati negli anni Novanta.
Quali nuovi modelli di remunerazione e di ricompensa potrebbero rappresentare in modo equo la miriade di modi in cui l’arte digitale ci aiuta a colmare le dolorose distanze sociali create dalla pandemia?
Gli artisti che lavorano con le tecnologie digitali, in particolare quelli che creano arte basata sul web, hanno cercato a lungo modelli di remunerazione che potessero rendere la loro pratica sostenibile. Un esempio in tal senso lo fornisce Carlo Zanni che si è spesso occupato dell’economia del mondo dell’arte nella sua pratica artistica e che ha raccolto le sue riflessioni in proposito nel libro Art in the age of the cloud (Edizioni Diorama, 2017). Zanni ha creato una poesia generativa accessibile online su un modello pay-per-view (un abbonamento che permette al visitatore di accedere a tutte le istanze della poesia), inoltre ha sviluppato una propria crittovaluta, usando la stessa opera d’arte come moneta. Queste forme sperimentali di integrazione di un compenso nel concetto di opera mostrano quanto possa essere impegnativo creare arte distribuita online, senza renderla necessariamente gratuita. Siamo abituati a considerare che tutto ciò a cui accediamo in rete debba essere a costo zero, perché diverse grandi aziende ci offrono servizi gratuiti in cambio dei nostri dati. Ma questo modello non è economicamente sostenibile. Quando un contenuto è particolarmente desiderabile deve essere retribuito, da qui gli abbonamenti alle piattaforme musicali e di intrattenimento o il pagamento delle riviste e dei libri in formato digitale. Tuttavia, questo modello non può essere facilmente applicato al mondo dell’arte, perché il suo pubblico è meno incline a pagare per queste forme di fruizione. Attualmente, c’è un numero crescente di piattaforme online che testano il modello di abbonamento, come Sedition, Daata Editions o Niio. Ognuna di esse ha il proprio target di riferimento e piani di prezzo, e tutte mirano ad assicurarsi una base di clienti, mentre dipendono dalla commercializzazione di schermi connessi più sofisticati ed economici. Inoltre, gli artisti continuano a utilizzare le piattaforme di crowdfunding e di micropagamento per ottenere una qualche forma di reddito. Per esempio, l’artista Serafín Álvarez ha sviluppato una versione della sua installazione Umbral (2018) come ambiente interattivo autonomo che può essere scaricato da una piattaforma di distribuzione di videogiochi facendo una donazione tramite PayPal. Inoltre, ci sono progetti curatoriali come la popolare mostra online “Well Now WTF?”, curata da Faith Holland, Lorna Mills e Wade Wallerstein, che riunisce opere GIF e video di circa 80 artisti, e chiede ai visitatori di pagare un piccolo contributo per poter vedere la mostra. I micropagamenti e gli abbonamenti sono un modo per ottenere una remunerazione, ma richiedono alcune infrastrutture e molti clienti e quindi difficilmente possono essere considerati una fonte di guadagno sufficiente.
Che ruolo avrà l’arte digitale nella ‘nuova normalità’ verso cui ci stiamo dirigendo?
Questa ‘nuova normalità’ sembra condurci ancora di più a sperimentare l’arte su formati digitali, principalmente su siti web, ma anche attraverso app che forniscono contenuti su schermi dedicati, oltre che in ambienti virtuali e di realtà aumentata. Negli ultimi mesi il mondo dell’arte contemporanea, dai musei alle gallerie commerciali, alle fiere d’arte, ai curatori indipendenti, si è affrettato a produrre mostre online e ‘virtuali’, che si configurano principalmente come documentazione (foto, video e testi) delle mostre allestite in uno spazio espositivo reale (mattone e malta). L’aspetto positivo di questa adozione accelerata dei formati digitali è che è più facile che mai vedere le mostre fisicamente dislocate in qualsiasi parte del mondo. L’aspetto negativo, a mio avviso, è che nella maggior parte dei casi la documentazione online non fornisce un’esperienza coinvolgente e la loro rapida proliferazione può portare a una certa stanchezza. In ultima analisi, questa stanchezza può far sì che i musei e le gallerie rifiutino rapidamente i contenuti online non appena le condizioni per visitare le loro esposizioni rientraranno nella ‘normalità’. Ritengo che ci sia una reale opportunità di concepire le mostre come eventi culturali da vivere sia online che offline, dove i contenuti online non siano una mera documentazione, ma parte del progetto curatoriale stesso. Allo stesso tempo, se sempre più spesso accediamo all’arte attraverso i nostri browser, smartphone, tablet e occhiali VR, ha senso prestare attenzione alle opere d’arte digitali, che vengono create apposta per questi ambienti, invece di limitarsi a foto di dipinti e video di sculture e installazioni. D’ora in poi, ci sarà probabilmente un aumento di mostre virtuali, fiere d’arte, biennali e altri eventi che sfrutteranno l’attuale fase di scansione 3D, modellazione 3D, tecnologie VR e AR. È importante non limitarsi a questi tentativi di replicare i soliti formati del white cube con immagini piatte sulle pareti, e che si sviluppino anche modi innovativi di vivere l’arte e di concepire le mostre.
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