«È più facile scrivere di quello che è fuori e non di quello che è dentro: quello che è fuori si descrive, quello che è dentro è solo poesia, e non la vedi, né può venire a comando»: siamo fuori Massimo Bartolini e io, nel Giardino delle Vergini, avvolti dalla suggestione acustica di un coro per tre voci, campane e vibrafono, che Gavin Bryars, insieme al figlio Yuri, ha composto ispirandosi a una poesia di Roberto Juarroz in cui un essere umano si percepisce come un albero connesso al mondo, per rapporto osmotico, attraverso radici. Qui, dove posso descrivere, tre coppie di speaker sono appese, quasi invisibili, ai rami di tre alberi e diffondono tre tracce di questa composizione suggerendo possibili relazioni con l’ambiente – relazioni, viene da dire che richiedono una marcia in più, che siano in grado di posare sul presente e sulle prospettive del futuro uno sguardo altro, alternativo, anche dinamico al fine di superare il moderno paradigma di una natura opposta alla cultura.
Non è obbligatorio partire dal giardino anzi, Due Qui/To Hear, che dichiaratamente gioca sull’assonanza tra two here (due qui) e to hear (sentire, udire), è stato pensato da Bartolini e dal curatore, Luca Cerizza, come un itinerario che non impone alcuna direzione ma lascia piena facoltà di movimento a ogni soggettività che, in quanto tale, gode del potenziale di espandersi, di attraversare, di trasgredire, di connettere e di contagiare, rompendo gerarchie, e dunque confini e ancora conflitti. Qualora si scegliesse di entrare dalla Tesa 2, che dà sull’Arsenale e che ancora si può descrivere, il punto focale, riferimento principale di un ambiente – sonoro – pensato per accogliere è la lunga colonna bianca, di 25 metri, posata a terra e contenente al suo interno un motore che, muovendo l’aria, produce un suono. Tal suono, prolungato, è un La bemolle e trova corrispondenza – secondo la teoria della cromia applicata alle tonalità musicali – nel colore viola di una delle pareti della tesa, a cui fa da contrappunto visivo il verde, rappresentativo del La (stando all’attribuzione di Alexander Scriabin).
In principio di questa colonna una statua di piccole dimensioni raffigura il Pensive Bodhisattva, ovvero un uomo che ha raggiunto l’illuminazione e vi rinuncia per indicare la via agli altri uomini. Questi uomini possiamo, se vogliamo, essere noi, e la via verso il cuore pulsante del padiglione è quella del «tender l’orecchio»: «Nel tender l’orecchio, che è una forma di inazione, tace l’io, presupposto di differenziazioni e delimitazioni. l’Io che tende l’orecchio si immerge nel tutto, nell’illimitato, nell’infinito», afferma Cerizza citando Byung-Chul Han.
Per quanto sia, forse fin troppo, umano domandarsi sulla soglia della Tesa 1 cosa vedremo, la risposta non è così scontata perché dipende esclusivamente dal nostro sentire. Dire che Due qui è la struttura in tubi innocenti più grande che Bartolini abbia mai realizzato o che è un ponteggio che non produce architettura ma suoni o, ancora, che è il risultato di un sofisticato lavoro ingegneristico e musicale che rimanda alle macchine sonore barocche e rievoca il disegno di un immaginario giardino barocco, non basta. È labirintica, è vero, è provvisoria, è altrettanto vero, e non ha alcuna pretesa di personalità, ed è proprio questa aspirazione all’impersonale a ribaltare ogni previsione possibile perché anziché vedere qualcosa non vediamo affatto ma ascoltiamo e, ascoltando con l’orecchio teso, ci muoviamo, ci perdiamo, ci affidiamo e alla fine, soggettivamente, avremo costruito il nostro percorso, la nostra composizione, senza esserci visti – cosa che in tempi di esposizione come quelli correnti, lascia senza risposta la fatidica domanda, “cosa vedi?”, in favore – ancora, e allora – della possibilità di sorprendersi.
È soggettivo? Assolutamente si. È inaudito? Altrettanto, perché invita a lasciarsi andare e a fidarsi, affidandosi a ciò che sentiamo muovendoci o sedendoci intorno a una simil fontana dove possiamo anche contemplare il moto perpetuo di un’onda conica: la musica – una composizione spazializzata naturalmente all’interno della tesa per mezzo di due grandi carillon (Mutivette) e da canne d’organo in legno, scritta da Caterina Barbieri e Kali Malone – ovvero «una lingua che tutti sentono e, che per parlare insieme, attraverso di essa, basta ascoltare». Romantico, vero? – con riferimento a quei caratteri del romanticismo inclini più alle suggestioni del sentire piuttosto che a una concezione razionale e pratica.
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