Nel silenzio di una cucina d’altri tempi, arredata con oggetti del presente, risuonano le voci fresche di Stella e Filmon. Le loro parole ci conducono dentro le vite dei due studenti eritrei non vedenti (lei vede solo ombre, lui cieco a seguito di un’esplosione a undici anni); parlano della loro esperienza di “essere visti”, di “pensare gli altri” e di “essere pensati a loro volta”. Un racconto, un confronto d’idee che a tratti assume il tono della sfida.
L’opera sonora riverbera nello spazio in modo che il visitatore entri a far parte dello spazio relazionale dei due ragazzi, anche se nella posizione percettiva dell’uditore che ascolta ma non vede. Seguendo il dialogo, si viene coinvolti dai loro discorsi sulla costruzione dell’identità nell’interazione con gli altri, sul percepirsi e essere percepiti anche quando lo sguardo su di sé e sull’esterno è dato da un’assenza importante, la vista.
Si chiedono: come sono fatte le persone? E loro? Bastano forse le parole a pensarsi? Oppure, come sostiene Stella, le parole non sono sufficienti, c’è il corpo che travalica il predominio del visivo?
Questo brano di vita vera intitolato Due ragazzi intorno ad un tavolo introduce al nuovo film LUMI di ZimmerFrei, uno staged documentary vincitore dell’Italian Council nel 2019 e prodotto da ON, a cura di Martina Angelotti, composto da una sequenza di tre capitoli girati negli appartamenti nobili dello storico Palazzo Vizzani, a Bologna, un tempo residenza del Cardinale Lambertini divenuto poi il papa del Secolo dei Lumi, oggi sede dell’Associazione d’Arte Contemporanea Alchemilla.
Sono tre storie affettive, raccontate in parte da personaggi veri e in parte da attori, che scavano dentro il tema dell’identità, della percezione di sé come soggetto contestuale – concetto introdotto da Gregory Bateson già negli anni Trenta, che ribalta la premessa individualista a favore della tesi che i processi mentali si costruiscono nell’interazione.
Diversamente dall’approccio pubblico sociale, i ZimmerFrei concentrano l’attenzione sulle vite individuali dei protagonisti non come narrazione solipsistica; al contrario, fanno emergere nel film quanto la consapevolezza di ciascuno avvenga nell’incontro e nell’interazione, nel racconto di sé e degli altri dentro un contesto di relazioni. I linguaggi – espressione prima del nostro nominarci – vengono così analizzati sullo sfondo delle convenzioni e degli attuali paradigmi sociali che ci confinano dentro strutture di pensiero inadeguate a esprimere la verità dell’essere.
I tre stadi dell’identità espressi dalla filosofia ontologica – autopercezione (sentirsi), presentazione (dirsi), designazione (essere detti dagli altri) – acquisiscono in quest’opera una poiesis toccante restituita grazie a un notevole lavoro di regia visiva e spaziale.
La visione procede dentro una stanza buia dove un grande schermo posto a terra intensifica la visione dall’alto della seconda parte (Tre ragazzi sdraiati a terra), girata nello stesso ambiente. La ripresa zenitale della scena mostra tre ventenni che si raccontano – l’italiana Bianca, il ghanese Omar e il nigeriano Jakub – sdraiati sul pavimento. Li vediamo chiacchierare tra loro e toccarsi distrattamente le mani, i piedi, il volto, dando forma alle loro parole anche con il movimento dei corpi, come la stessa Stella faceva notare prima.
Anche loro intrecciano desideri personali, esperienze di vita – in particolare il viaggio di Yakub dall’Africa all’Italia – e sogni di una generazione che ha già toccato con mano gli effetti di convenzioni sociali che ingabbiano le loro identità in categorie di pensiero: l’essere bianchi o neri, cittadini italiani o stranieri, femmina o maschio dentro un contesto di precarietà sociale ed economica. Si confrontano sul futuro, anelano alla libertà di viaggiare per conoscere il mondo, di esistere come persone e non come controfigure di una storia già dettata dalla narrazione politica.
Mentre li lasciamo con i loro interrogativi sfumati nel sonno, il film prosegue il suo terzo capitolo nella camera accanto dove una giovane coppia sdraiata su un letto mette in scena un dialogo serrato sullo sguardo e sul desiderio maschile verso un femminile immaginato, non reale: la donna amazzone, la donna asservita, la donna violata e non riconosciuta nella sua reale identità. La ragazza è italiana, ha la pelle ambrata, esotica e i capelli ricci, è una femminista militante che combatte contro il razzismo e il ruolo sociale della donna. Anche il ragazzo è italiano, di pelle bianca, colto, progressista, e ambientalista. Durante i loro dialoghi emergono le sue fantasie erotiche, nutrite dalla fascinazione per la pornografia, in cui il desiderio maschile di possesso del corpo dell’altro è proiettato solo sulle sue simili (le donne bianche), mentre il corpo femminile dalla pelle nera lo lascia indifferente – eccezione fatta per lei, espressione di affettività e di amore. La scena è girata nella stessa sala dove gli spettatori guardano il film in uno gioco di rispecchiamenti spaziali e di paradossi mentali: la coppia si avvicina, si allontana durante la discussione, si riavvicina sottolineando anche il dialogo silenzioso tra i loro corpi.
In questa ultima parte la narrazione, scritta dal regista e drammaturgo Alessandro Berti, è accompagnata da una tensione verbale crescente che si stempera nell’abbraccio della coppia prima di addormentarsi. In questo lavoro i temi sviluppati nei precedenti capitoli sono portati dentro il contesto più intimista della relazione di coppia, focalizzandosi sulla dipendenza dalla pornografia nell’espressione del desiderio e sui retaggi secolari che vedono ancora in atto la contrapposizione tra superiorità razziale e minoranza culturale.
La mostra si conclude con un accento leggero: in un breve video finale scopriamo i tre ragazzi Bianca, Omar e Jakub introdursi segretamente negli appartamenti del Cardinale dal lucernario della cucina e condurci dentro il set del film. Un percorso à rebours che strappa un sorriso, lasciandoci con l’incognita se sia questo in realtà l’inizio del film e del progetto di ZimmerFrei.
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