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Senza Figura – Monitor Gallery
Arte contemporanea
È una mostra sulle nature morte quella ospitata nella sede di Monitor Gallery a Pereto, ma chiunque si aspetti una noiosa sequenza di dipinti polverosi e vieti sia pronto a ricredersi. La mostra si può definire complementare a quella solidissima che nelle stesse settimane può essere visitata nella sede romana di Monitor, ROMA (manuale della mollezza e la tecnica dell’eclisse), in cui Nicola Samorì apre a nuove vie espressive: se in quella il pittore bolognese si confronta solitario con una personale messa in discussione, costruita e costruttiva, della pittura di figura, a Pereto, e in veste anomala di curatore, riesce a orchestrare un confronto corale e coerente.
Attraverso le opere di un gruppo di pittori emiliani e romagnoli, Chiara Lecca, Enrico Minguzzi e Pierpaolo Campanini, tra cui è compreso anche un mostro sacro come Mattia Moreni, viene messa in scena una vera e propria negoziazione tra realtà e apparenza, al cui centro è la pittura. Nulla è come sembra, a partire dall’anguria sull’erba di Moreni che vigila come nume tutelare di un mondo di continui scivolamenti semantici: un’anguria che va mutando in corpo, in carne, in sensualità e sessualità, adagiata su un prato che diventa pelliccia, in uno spazio confondente in cui il reale non è più quel saldo appiglio che ricordavamo.
Intorno a questo leitmotiv si muovono gli altri lavori in mostra. Le composizioni plastiche di Lecca giocano con l’osservatore su diversi livelli di ambiguità, combinando artificiale e naturale, animale, vegetale e minerale, in una sorta di rilettura delle categorie su cui era fondata la scienza occidentale sin dal Rinascimento, ma in chiave di inganno concettuale e percettivo (si veda Dark Still Life, 2016, composizione floreale realizzata con fiori finti, non tanto nel senso di sintetici, ma in quanto realizzati con parti di scarto di animali tassidermizzati).
Anche le opere di Campanini e Minguzzi partono dal dato naturale per trasfigurarlo, e trasformarlo in visione altra: nel primo, delle foglie, o un gomitolo di fibre, diventano strani accidenti cromatici alieni, inclassificabili, irriconoscibili; il secondo invece va a ritrovare l’immagine di un residuo naturale – un groviglio di rami, dei fiori secchi – scavando attraverso gli strati della pittura e ottenendola in negativo scoprendo la base fluo del dipinto, ovviamente pervenendo a immagini fortemente perturbanti per la contina oscillazione tra familiarità e estraneità.
Il punto di raccordo con la mostra di Roma, sono due nature morte di Samorì stesso. In una di esse, Lunga luce agli abbagliati, dipinta su breccia di Vendome, la natura più che morta è falsa, in quanto la forma dei fiori la ha suggerita la trama naturale della pietra, a cui il pittore ha accondisceso, seguendone e interpretandone i segni attraverso la pittura, al modo delle pietre paesine dipinte. È la materia che dialoga con la capacità immaginativa dell’artista, dello spettatore, svelandosi, imprevedibilmente, viva.